martedì 24 giugno 2014

IN VERITA' FARLA FRANCA. Di Giancarlo Ricci


Da un recente fatto di cronaca in cui l’esame del DNA avrebbe  identificato l’autore di un omicidio (caso Gambirasio), prendiamo spunto per alcune curiose riflessioni. La densa trama di implicazioni retroattive interroga  sul senso della verità. Qui la scienza genetica, non lo scientismo, sembra  - o così pare - raggiungere davvero la verità, toccarla, sottometterla, folgorarla. Renderla un dato di fatto. Ma è proprio così? Gli umani riescono ancora a mentire o inventano altri modi per evitare la verità? 

Tre brevi notazioni. La prima: la verità è una struttura reticolare, avvolge la logica di un discorso, le fornisce consistenza. Ogni elemento sussite in relazione agli altri, li tiene collegati, assicurandone coerenza. Ma, ecco il punto, quando un elemento si frantuma, quando si combina con l’imprevedibile, l’intera struttura vacilla, si sgretola. Quel piccolo dettaglio si ingigantisce e cresce a dismisura. Minuscole verità si aggregano fino a diventare un macigno. 

Un piccolo   riverbero diventa cosa mostruosa. E se la verità avesse una natura pulviscolare fino a diventare irriconoscibile? E’ questa l’ipotesi che Pirandello amava indagare. Nel suo La signora Frola e il signor Ponza, suo genero (1917) l’impossibilità di attribuire la follia, di riconoscere il fantasma, di definire la realtà mantengono la verità al suo grado zero. E lì la verità rimane, irrimediabilmente; giace in uno status inattivo, impensabile, quiescente ma sempre potenzialmente esplosivo. 
La seconda. In questo caso giudiziario come nella vicenda di Edipo, è dalla madre che la verità origina. Da lei si srotola il filo che raggiunge il figlio e lo lega a sè, fino a stringerlo in un abbraccio mortale. Come accade nella tragedia Edipo Re, Giocasta, madre di Edipo, non è affatto innocente. Il suo silenzio raddoppia il silenzio del figlio, fino a strangolarlo. La sua colpa si moltiplica in quella del figlio, fino a diventare un inconsapevole atto di accusa. La verità, nella sua multiforme trama, opera secondo un’intelligenza diabolica in quanto agisce attraverso il doppio laccio della “verità storica” e della “verità materiale”, come ricordava Freud. Duplice registro, duplice laccio, duplice bordo. Non si sfugge. La verità lavora sembre altrove rispetto a dove la si cerca, come insegna Lacan nella sua “La lettera rubata”. Giunge sempre a destinazione e si fa leggere sempre dal lettore sbagliato. Avrà le gambe corte ma sa alla perfezione dove recarsi.

La terza riflessione merita uno svolgimento più ampio. Questa vicenda giudiziaria, nella logica che sottende, evoca un emblema della nostra epoca: il farla franca. Siamo evidentemente al di là della vicenda accaduta. La beata innocenza del farla franca promette di non pagare la franchigia, di annullare il debito, di passare nell’impunità. Ecco il vero volto della verità nei nostri tempi. Viviamo nella società del farla franca. La quale ci insegna a fare in modo che la nostra stessa soggettività possa congegnarsi e conformarsi alla modalità del farla franca. Questa diffusa propensione non annuncia forse una svolta antropologica? L’Uomo non si lancia più nel  disumano confronto con una Verità irraggiungibile, ma si attiene alla piccola economia che gli assicura di farla franca. 
Riuscire a gabbare la verità è una credenza diffusa anche nelle scelte che si compiono rispetto alla soggettività. I “nuovi sintomi”, come osservano alcuni psicanalisti, si configurano per il loro sganciamento dalle logiche dell’inconscio. Lui lavora incessantemente io la faccio franca e posso vivere alle spalle dell’inconscio. Questa strada, occorre ricordarlo, procede parallela a quella dell’inclinazione perversa. E’ un altro volto della perversione. 
Insomma: è finita l’epoca in cui si riteneva che l’istanza della verità fosse l’opposto della menzogna, che il suo svelamento dovesse essere totale per evitare un’eventuale omissione. No, in epoca di diffuso cinismo, la verità ci interessa solo per riuscire a capire se possiamo farla franca. L’uomo contemporaneo, con le sue astute potenzialità cognitive e con generoso spirito  individualista, esercita il pensiero come esercizio di disinnesco: semplicemente farla franca. Non impedire alla verità di esistere, ma lasciarla vivere in pace, semplicemente apprezzarla come un prestigioso oggetto di arredamento. Una volta bonificata la ammiriamo, innocua. Ogni tanto ci guarda, o forse ci riguarda. Non importa, ormai siamo convinti di averla fatta franca. Rimane solo un senso di inquietudine, come se qualcosa continuasse a incombere... Eppure ero sicuro di averla fatta franca. 

mercoledì 18 giugno 2014

PRIMA CHE SIA TARDI. INCONTRO CON LA VIOLENZA. Di Claudia Rubini

Pubblichiamo alcuni passi dell'articolo di Claudia Rubini sulla violenza uscito presso i Quaderni LETTERA il cui ultimo numero è dedicato a CURA E SOGGETTIVAZIONE (a cura di A. Zanon, Mimesis, 2014) 

 I numerosi fatti di cronaca parlano, ogni giorno, di violenze perpetrate all’interno di legami affettivi; in diversi casi, purtroppo, se ne parla perché ragazze o donne vengono uccise da chi si presumeva dovesse amarle. Si sa sempre molto poco di queste donne e delle loro storie, ma c’è un aspetto comune che si trova sempre quando si legge di loro: “è stata una tragedia annunciata”; il passaggio all’atto violento che ne ha determinato la morte avviene, solitamente, dopo mesi o anni di maltrattamenti e violenze. 
Cosa si può fare per contrastare il fenomeno della violenza? Cosa si può fare prima che sia tardi? Da un lato, l’operazione che a livello culturale, sociale, mediatico si sta tentando di produrre è una focalizzazione sul maschile; tra i temi trattati, in primo piano c’è sempre di più quello che interroga gli uomini, la loro posizione di carnefici e come questa possa evolversi, modificarsi, produrre un possibile cambiamento [...].
Quando si parla di violenza sulle donne si parla davvero delle donne? O si parla di quante botte hanno preso, quante costole rotte, quali organi danneggiati, come sono state uccise? Solitamente sappiamo da quanto tempo stavano con il loro carnefice. Ma sulla loro posizione ci si interroga mai? Su cosa le abbia portate lì, sul perché, sul loro modo di desiderare, di amare, etc. [...].

Quando si parla di amore le cose si complicano sempre, perché per quanto si cerchi di darne una definizione, di trovare una consistenza in questo “essere amate”, ogni donna cercherà di fornire una risposta a partire dalla sua interpretazione dell’amore. Quest’ultima non giunge improvvisamente ma si costruisce nel corso del tempo in rapporto all’Altro familiare, a partire dunque dall’infanzia, fino a trovare la sua manifestazione nell’adolescenza, nell’incontro con l’altro sesso.
Come una ragazza entra nel campo ignoto dell’amore e della sessualità? Lo fa, con l’unica cosa che la orienta: l’interpretazione inconscia del posto che lei ha occupato nel desiderio dell’Altro. Detto in altri termini, la domanda inconscia che la bambina, nel corso del suo sviluppo, rivolge al suo Altro familiare è: come devo essere perché tu mi ami? Come devo essere per non perdere il tuo amore? Quindi, interpreta qual è la posizione che catalizza questo amore e vi si identifica; è a partire da questa che entra nel discorso amoroso. Potremmo dire che la nostra giovane ragazza ha una base di partenza, una traccia, che in psicoanalisi si chiama identificazione. Ma cosa fa sì che questa traccia possa trasformarsi in un marchio rovinoso, che può portare una giovane donna ad accettare di subire ripetute violenze all’interno di un legame definito d’amore? [...].
Armenia, 1895
Uno schiaffo, un pugno, un calcio rompono la legge della parola, che fonda l’umanizzazione della vita implicando l’esperienza del limite e il rispetto dell’alterità.
Il soggetto femminile in quell’istante è un oggetto in balia dell’altro, di un altro che gode malevolmente del suo corpo; ed è lo stesso altro, la stessa persona che, fino ad un istante prima, quel corpo lo aveva adorato, contemplato, eletto a suo oggetto di desiderio. È un’esperienza terribile, ancor più per una ragazza che si è appena affacciata all’amore: eccola confrontata con qualcosa di inspiegabile, di incomprensibile. Cosa ci farà questa ragazza con questo incomprensibile che ha incontrato? Questa è la grande questione che muove l’etica e la clinica della psicoanalisi. Per la psicoanalisi non c’è determinismo diretto, ovvero dato un evento si produce inevitabilmente un effetto. Un cattivo incontro non produce necessariamente un trauma. Ma se il trauma si produce, e questo di solito accade quando il soggetto si sente totalmente lasciato cadere, quando non trova le parole per dire, quando non trova una risposta alla sua domanda muta di comprensione, ciò probabilmente innescherà una fissazione che si manifesterà come ripetizione dello stesso [...].
Quel che, dunque, diviene centrale tra la contingenza dell’evento e la necessità inconscia di riprodurlo, è la mediazione soggettiva. Ovvero come un soggetto, esposto a un cattivo incontro, abbia la possibilità di elaborarlo, di togliersi da quella posizione di oggetto che subisce.