martedì 3 dicembre 2013

DOVE SI NASCONDE LA SALUTE di Giancarlo Ricci


Tutto il nostro sapere deriva dal cielo, affermava con un aforisma lo psicanalista Jacques Lacan. Oggi il sapere medico sembra non abiti più nel cielo delle idealità: la scienza medica enfaticamente ci ricorda quotidianamente che la nostra salute è sempre provvisoria, eventuale, probabile.
 Il concetto stesso di salute è diventata una costellazione dai contorni vaghi, indefiniti, addirittura contraddittori. L'immaginario sociale, pervaso dal più sano scientismo, è frastornato da statistiche, da diagnosi sempre più comprovate, da tecnologie miracolose, da farmaci portentosi, da scenari avveniristici dove sarà impossibile ammalarsi di qualcosa perché già tutto è stato previsto e riparato. 
    Come proponeva un importante libro del filosofo Hans-Georg Gadamer dal titolo Dove si nasconde la salute  (Cortina Editore), oggi quasi lo abbiamo dimenticato: ammirando l'avanzamento delle nuove bio e neuro ingegnerie, gli imminenti  miracoli della genetica, i risultati di alchimie farmacologiche, abbiamo forse dimenticato l'essenziale: dove si nasconde la salute? Ma che cosa è la salute, come la curiamo, come trattiamo il nostro corpo e la nostra psiche? Quale relazione tra la parola e l’inconscio? Sono domande cruciali che Hans-Georg Gadamer sviluppa ed esplora. "La cura della salute - afferma - è un fenomeno originario dell'essere umano". E giustamente parla del "guaritore ferito", di quell'antico quanto irrealizzabile sogno di padroneggiare la morte e quindi dominare la vita. Se tale furor sanandi giungesse a compiersi la società sarebbe cartesianamente abitata da macchine viventi, da "replicanti", da esseri bionici. E la società stessa verrebbe regolata da un principio biopolitico. Il dibattito che sta sorgendo intorno alla nuova versione del DSM V va proprio in questa direzione. 

mercoledì 27 novembre 2013

LA DIFESA DEL SOGGETTO di Silvano Petrosino


Alcuni brani dell'intervento di Silvano Petrosino in occasione della presentazione del libro L'atto la storiadi G. Ricci
 (Galleria San Fedele, Milano, 7.11.13)

Sono rimasto colpito da questo libro; mi sembra un contributo che porta alla riflessione sulla vicenda del papa ma anche, in generale, sul nostro tempo. Mi sono soffermato sul concetto di atto che nell’interpretazione che ne dà l’autore viene presentato come atto psicoanalitico. Riprendo solo due righe dal libro: “Quello di Ratzinger - scrive Ricci  - è stato un atto analitico”. E prosegue:  “L’atto in psicanalisi ha una particolare rilevanza: esso effettua  uno spalancamento che consente a un frammento di verità di  prendere voce, per esempio nel lapsus, nel sogno, nella dimenticanza.
L’atto comporta  l’emergenza di una verità rimasta  latente, dà voce a pensieri inconsci che erano silenti”. L’idea da cui prende le mosse è che le dimissioni di Benedetto XVI costituiscano un atto di questo tipo. Ora, rispetto a che cosa? Quale sarebbe il punto di verità che emerge? Sono d’accordo con Mussapi nel dire che è un’interpretazione assolutamente laica; il discorso dell’autore ha una pretesa veritativa che va al aldilà del rapporto tra credenti e non credenti. Quale sarebbe dunque il punto di verità che emerge?


Per l’autore è in questi termini: “L’atto si affaccia sull’alterità, la chiama a manifestarsi”. E parlando del gesto di Benedetto, prosegue: “Dal punto più alto della responsabilità non rispondo più della vostra assenza di responsabilità e io stesso mi espongo senza sottrarmi alla responsabilità di attuare un atto che lascia in sospeso l’attribuzione di responsabilità”. Mi sembra una formulazione felice e, anche in seguito, il testo prende un respiro interessante.
La nostra è una società a capitalismo avanzato, di consumismo o di tecnonichilismo come è stato detto, è un insieme in cui si mischia il processo di secolarizzazione e di avanzamento tecnologico. Se dovessi dire velocemente in che cosa consiste il pericolo maggiore di questa società direi che è l’idea che si possa costruire una società in cui non è più necessario essere buoni. Costruire una società con un tale meccanismo e una tale perfezione, con questa ingegneria degli interessi che alcuni identificano nella politica, con questo equilibrio assoluto rappresentato dalla tecnologia, dalla mappatura del genoma umano, dal cognitivismo, è una sorta di delirio, sarebbe, in termini psicanalitici, dell’ordine del delirio. 

mercoledì 20 novembre 2013

DRAMMATURGIE DEL NOSTRO TEMPO di Roberto Mussapi

Alcuni passi dell'intervento di Roberto Mussapi alla presentazione del libro "L'atto la storia" di G. Ricci (Milano, 7.11.13).
L'intervento completo:


(...) La scelta straordinaria, epocale, di Benedetto XVI viene interpretata da Ricci innanzi tutto come un evento drammatico, come qualcosa di sconvolgente, perchè noi siamo abituati a ricevere dagli uomini depositari della sapienza religiosa del mondo insegnamenti disciplinari o traduzioni di visioni. Ma qui c’è un gesto fisico, un gesto immediato, diretto, a cui seguirà un gesto inaspettato, l’arrivo di un papa completamente imprevedibile. E’ importante la complementarità drammatica. Ricci vede come l’uno sia l’altra faccia dell’altro: così come uno è talmente aderente al senso profondo di un rito da capire come questo rito nel momento in cui è reiterato, viene deritualizzato, così l’altro, quando giunge, ripropone in forme nuove il rito. 

E’ interessante anche il fatto che il libro pone questo evento, che avviene all’interno della Chiesa, come un modello che dovrebbe essere seguito nella società, ad esempio l’abitudine etica alle dimissioni, a non sentirsi onnipotenti, insostibuibili. L’idea delle dimissioni implica anche un concetto di ereditarietà diverso da quello tradizionale. Io non ho nessun potere da trasmettere a qualcuno. Il potere, il potere spirituale, nel senso buono, non il potere di cui parlava Pasolini, mi è dato in prestito, esattamente come la poesia. Il giorno dopo che Leopardi ha scritto L’infinito non può alzarsi e pretendere di riscrivere una poesia così. Magari non la farà mai più. Perchè la poesia gli è data in prestito e questo prestito può essere onorato solo con la dedizione, con l’applicazione, con il lavoro, come fa un prete, un poeta, un fabbro, un orefice o un panettiere. Con la differenza che nella poesia e nelle arti dello spirito qualcosa passa, viene in contatto con noi, e noi dobbiamo trasmetterlo, crearne forme, ma sapere che non è nostro. 


Concludo con questa metafora: l’opera, il capolavoro dei capolavori di Shakespeare, il capolavoro del teatro di tutti i tempi, accanto all’Amleto,  è la Tempesta. Il mago Prospero ha un potere praticamente assoluto, crea la tempesta, controlla tutto, incanta i suoi nemici animato da un desiderio che noi oggi diremo di vendetta ma che in realtà è di giustizia, dato quello che ha subìto, ma lo fa per ragioni di amore: per la figlia che si innamora del figlio del suo nemico e per altre ragioni. Comprende che, non solo deve perdonare il suo nemico ma che deve rinunciare ai suoi poteri magici. Così nel momento in cui ha capito la realtà dell’amore e della compassione, non può più considerarsi un mago eternamente. Quindi dopo avere compiuto i suoi miracoli, se ne va in pensione, spezza la bacchetta magica, la lancia nel fondo del mare dicendo: la magia abita nei misteri dell’abisso. In ciò si rivela un vero sapiente, un grande mago. Crea una grande riconciliazione. Secondo la mia interpretazione Ricci ha indicato in Benedetto un grande sapiente che ha compiuto questo gesto. Ma ciò non riguarda solo il mondo cattolico, è un esempio di comportamento in un mondo che ha bisogno di lezioni di rinunce e di rigenerazione di questo genere. (Trascrizione non rivista dall’autore).

sabato 26 ottobre 2013

DEPRESSIONE E INDIFFERENZA di Giancarlo Ricci


Pubblichiamo una pagina dal paragrafo "Elogio dell'impotenza" del libro "L'atto la storia" di G. Ricci. 
Il 7 novembre alle 18, presso la Galleria San Fedele 
(via Hoepli b, Milano) si tiene un dibattito sul libro con gli interventi di Roberto Mussapi e Silvano Petrosino.


Come psicanalista penso non sia un caso che le statistiche considerino la depressione come l’epidemia più diffusa nella contemporaneità. Tuttavia le statistiche non dicono che, per uno strano effetto di moltiplicazione, la depressione è il “disturbo” più celebrato, più favorito, più incoraggiato dalla società. Nulla di più rassicurante del silenzio della depressione: l’evitarsi, il tenersi lontano, l’isolamento, la rinuncia alla parola, alla memoria, alle relazioni, al sogno.

In effetti questo silenziare la soggettività, parallelo a un certo soffocamento della corporeità, fa comodo a tutti. È un silenzio che produce silenzio. Che riproduce un mettere a tacere. Non fa spettacolo, non fa rumore, non chiama in causa niente e nessuno. È un silenzio neutro che si spegne in se stesso fino a tacere del tutto. 
In queste tematiche la semplice “frasetta” «Ama il prossimo tuo come te stesso» galleggia con tutta la sua potenza esplosiva. La vera incandescenza, quella che può causare l’esplosione, risiede nella locuzione «come te stesso», dove il “te stesso” non è altro che lo sguardo che rivolgiamo dentro di noi. È uno sguardo che talvolta incontra l’orrore del nostro stesso volto che stentiamo a riconoscere nello specchio. E questo orrore dovrebbe costituire la misura di “come” ci accostiamo al nostro prossimo? Povero nostro prossimo, gli conviene fuggire! Del resto lo constatiamo ogni giorno, quando coloro che praticano il più convinto narcinismo (narcisismo con cinismo) giustificano la loro rassegnazione: non sono certo io a essere razzista, semplicemente è l’Altro a essere così molestamente diverso da me!
Ma l’indignazione è un’altra e riguarda il fatto che, nella società dell’indifferenza, il dolore si dilegua nel sordo grigiore della quotidianità, si mescola all’inquietudine, non trova le parole per dirsi, si perde nell’anonimato e nell’indistinto della moltitudine. La solitudine dilaga poiché non è facile trovare un “proprio simile” in grado di reggere e accogliere qualcosa di così smisurato. Sembrano sparire tutti. E allora sopravanza l’ombra dell’angoscia.

domenica 29 settembre 2013

LA COSA PUBBLICA di Giancarlo Ricci

Pubblichiamo alcuni passi tratti dal paragrafo "La tenuta dei ponti" del libro L'ATTO E LA STORIA di Giancarlo Ricci.

La “cosa pubblica” pare proprio non essere più il luogo di una progettualità ma il mercato della spartizione, della connivenza, dello smercio di superstizioni traballanti, di scambi di omertà e alibi. Eppure la collettività, la cosa pubblica, il sociale, la comunità, il gruppo, dovrebbero rappresentare il punto più alto della civiltà, il suo nucleo più laicamente ed eticamente forte.
L’ascolto dell’inconscio insegna. Insegna che se colui che parla non si attiene alla propria parola e alla propria storia, al proprio sentire e al corso dei propri pensieri, le cose si complicano, paralizzano, assumono un peso insopportabile, si mostrano come spettri o chimere indefinibili.
Occorre che le cose, per quanto è concesso all’umano, siano nominate con il loro nome, altrimenti si fa dell’ottundimento un criterio di  presunzione e di permalosità, modi sbrigativi con cui viene nientificato l’Altro e negato l’inconscio. Occuparsi, per lo psicanalista, del disagio della civiltà nelle sue forme attuali costituisce l’altra faccia della clinica: un giro apparentemente più lungo ma che permette di arrivare al cuore delle questioni, di ogni questione. E ciascuna questione è soggettiva e singolare proprio perché chiama in causa una particolare vicenda sociale. L’istituzionale e il soggettivo sono indissolubilmente legati [...]. 
La degradazione della “cosa pubblica” produce una società che  si muove come i ciechi di Bruegel: ciascuno tiene la mano sulla spalla dell’altro, ma nessuno sa dove si stia effettivamente andando. A ben pensarci non è senza enigma questa rappresentazione del sintomo (nell’accezione psicanalitica) che, strutturandosi come “formazione di compromesso”, insistentemente ostacola, osteggia, impedisce. Di sicuro introduce un’economia mortifera di perdita, di dissipazione e di smarrimento.


domenica 7 luglio 2013

PSICOANALISI DELL'ADOLESCENZA di Francesco Giglio


Autore del libro IL DISAGIO DELLA GIOVINEZZA. Psicoanalisi dell'adolescenza (Bruno Mondadori, 2013), FRANCESCO GIGLIO interviene in merito agli scenari sociali implicati dal disagio giovanile.

Risiediamo oggi nell’epoca dell’adolescenza prolungata, dello sforzo comune a ogni età di permanere nel tempo della giovinezza e della sospensione delle scelte. Si osserva l’imposizione sociale del giovanilismo, e la diffusa mira umana a divenire e rimanere giovani per sempre.



La pressione della società contemporanea rivolta ai bambini mostra la mira a far loro lasciare presto l’infanzia per divenire giovani, dal lato della maturità adulta, sino alle età più avanzate, è attiva la medesima pressione che vorrebbe conservare indeterminatamente lo stile di vita adolescente. Il secondo grande tema della prima giovinezza riguarda la dimensione del corpo, nella quale si osserva l’innesco fisiologico dell’adolescenza, costituito dalle trasformazioni corporee della pubertà. 
     Nel nostro tempo i giovani sono trattati esclusivamente come consumatori, la crisi attuale, viceversa, rende quanto mai necessario che essi si schierino e si facciano produttori, organizzatori e trasformatori dell’esistente. Inventori dell’innovazione possibile, poiché se con Dostoevskij “è dagli adolescenti che si edificano le generazioni”, solo dal superamento del modello consumistico, possiamo attenderci un’innovazione sociale più che auspicabile ormai indispensabile alla vita umana e ai suoi scenari.


lunedì 10 giugno 2013

PSICANALIZZARE, EDUCARE, GOVERNARE: MESTIERI IMPOSSIBILI. Di Giancarlo Ricci


Una celebre frase di Sigmund Freud osserva che ”quello dello psicanalizzare sembra essere il terzo dei mestieri impossibili il cui esito insoddisfacente è evidente. Gli altri due, noti da tempo, sono quelli dell’educare e del governare”. Psicanalizzare, educare, governare sono dunque pratiche impossibili. Eppure mai come in questa stagione il tema dell’ingovernabilità balza costantemente agli onori della cronaca: nella politica così come nel pensiero progettuale, nell’informazione così come nelle idee relative a un presunta  realtà. Qualcosa immancabilmente sfugge, si frammenta, si sottrae alla pensabilità. Non siamo più padroni in casa nostra.
La psicanalisi insegna che l’esperienza della impotenza comporta una preziosa fecondità, l’occasione per  interrogarsi intorno allo statuto dell’umano, abitarlo fino in fondo senza protesi, orpelli, mascherature, tutori, alibi, astuzie della ragione. Il nodo rimane quello della libertà. Sembra paradossale ma è proprio l’esperienza dell’impotenza e del limite a costituire la condizione della libertà.

L’esperienza del limite esige l’istanza della responsabilità. Era Freud a ricordare più volte che la vera potenza è quella del ritorno del rimosso. E che qualcosa che viene espunto dal simbolico (dalla parola) ritorna dal reale e ci travolge inesorabilmente. Oggi non c’è solo il trionfante fantasma dell’onnipotenza tecnologica a esibirsi, ma diverse e variegate forme di onnipotenza: quella della certezza morale, quella narcisistica, quella ideologica, quella dei saperi ben disciplinati, quella delle certezze impeccabili esibite in alta uniforme e tante altre. È così difficile capire che la certezza nutrita di onnipotenza è una figura del punto cieco, dello scotoma, della bulimica negazione della differenza?

venerdì 26 aprile 2013

COSA RESTA AL FIGLIO. . . di Giancarlo Ricci

Il disagio giovanile ma anche lo statuto di figlio oggi. 
Il tema dell'eredità, del divenire, per progetto. Irrompe un nuovo protagonista: il figlio -Telemaco, colui che scruta l'orizzonte del mare e attende che qualcuno arrivi.  
Massimo RECALCATI con il libro Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli)  propone Telemaco come figura che ci permette di leggere differentemente la situazione dei giovani oggi. 


Il tema dei giovani, del loro disagio, del loro avvenire è enorme. Se la trasmissione tra le generazioni si interrompe, se l’eredità si disperde, se i processi di filiazione simbolica si sfilacciano, l’umano rischia di estinguersi e di spegnersi. Non è in gioco la sovravvivenza dell’individuo ma quello della collettività, ossia di un patrimonio che “per possederlo davvero” occorre riconquistarlo. E se non viene riconquistato dai giovani rimane abbandonato, in disuso, dismesso, non attinto. 
La situazione d’emergenza in cui oggi si trovano i giovani, altro non è che lo specchio dell’estremo disagio della nostra civiltà. Non tanto nel senso che i giovani si rispecchiano nel mondo degli adulti. Ma che i giovani attuano, come dinanzi a uno specchio deformante, una sorta di caricatura o di parodia dei punti scabrosi e sintomatici della società: il cinismo diventa bullismo, il disfattismo si trasforma in vandalismo, l’inebriamento diventa sordo ottundimento, la libertà secondo cui tutto è possibile diventa dissipazione. 
“Il mito della libertà senza vincoli - osserva Recalcati - è un miraggio ipermoderno che fomenta la riduzione perversa della libertà - scissa da ogni forma di responsabilità etica - alla pura volontà di godimento”. Fino a un decennio fa, la volontà di godimento non era forse l’obiettivo edonista e liberatorio, che di generazione in generazione, veniva additato come un traguardo di civiltà? Appunto, le carte erano truccate. Cosa resta allora ai figli? Cosa resta ai giovani? Possono rimanere relegati in una terra di nessuno quasi fosse una riserva in cui sopravvivere senza speranza e senza progetto?

sabato 23 marzo 2013

L'INCIVILTA' DEL GODIMENTO


Abbiamo rivolto un paio di domande al sociologo FEDERICO CHICCHI, autore del libro SOGGETTIVITA' SMARRITA (Bruno Mondadori, Milano 2013). L'intervista completa è reperibile sulla rivista di psicoanalisi Lettera, n. 3 (et al /Ed.)

       Una delle tesi centrali del libro è quella che viene formulata come: inciviltà del godimento. Essa apre una prospettiva assolutamente nuova nel senso che segna un punto di svolta, una “mutazione antropologica”. In che misura questo tema dell’inciviltà del godimento costituisce uno spartiacque decisivo ed essenziale per il nostro futuro? 

In effetti nel volume propongo l’espressione inciviltà del godimento. Ci tengo però a precisare che il mio intento non è stato quello di demonizzare il godimento come tale, come se questo fosse sempre un momento distruttivo e mortifero dell’esperienza soggettiva. 


Quello che mi premeva denunciare, seguendo qui alcune suggestioni di Slavoj Žižek, era invece l’imperante generalizzazione della spinta a godere ad ogni costo, accompagnata dal rischio di rendere evanescente il limite che la normatività intrinseca alla relazione sociale porta necessariamente con sé. Questo imperativo osceno, oltre che consumare e distruggere desiderio, produce una sorta di delirio autistico nel soggetto, all’interno del quale trova cittadinanza una cinica, perversa e maniacale, vanità egoica. Questo imperativo non è altro che il programma antropologico dell’inciviltà neoliberale. Programma che, a mio avviso, occorre contrastare. 

martedì 12 marzo 2013

CHE MADRI AVETE AVUTO di Giancarlo Ricci

Pubblichiamo un brano del libro IL PADRE DOV'ERA (Sugarco 2013) di G. Ricci relativo alla questione della madre. L'esergo è una poesia di P. P. Pasolini 
"Che madri avete avuto": 

Madri mediocri, che non hanno avuto 
per voi mai una parola d’amore,
se non d’un amore sordidamente muto 
di bestia, e in esso v’hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore.

Non c’è domanda più radicale, e al tempo stesso più intima, che interroga così insistentemente come questa Ballata delle madri scritta da Pasolini: “Mi domando che madri avete avuto”. Ossia: che sguardo hanno avuto per i loro figli, che cosa hanno inteso di loro, come lo hanno amato, come si è coniugato il loro desiderio verso il figlio. La lirica di Pasolini gronda di amore e di rabbia, esprime il “dolore di essere uomini” e indica una sorta di desolante maledizione. 



  Non si tratta, come spesso evoca una certa retorica buonista, del tenero amore del figlio verso la madre. Piuttosto è il contrario: è l’amore “sordidamente muto” della madre a risultare tragico, “mostruoso”. Pasolini in un’intervista ammette di aver pensato per molto tempo a qualcosa di inquietante:  “L’insieme della mia vita eroica ed emotiva (credevo che) fosse il risultato del mio amore eccessivo, quasi mostruoso verso mia madre”. Questa mostruosità in effetti è sempre sul punto di ribaltarsi fino a coincidere con la lucida consapevolezza di essere oggetto d’amore esclusivo e privilegiato da parte della madre. 
     In un’altra poesia dal titolo Supplica a mia madre, il poeta scrive parole incandescenti: “Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:/è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia./ Sei insostituibile. Per questo è dannata/ alla solitudine la vita che mi hai dato./ E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame/d’amore, dell’amore di corpi senza anima (...)"
    Che madri avete avuto. Questione che è il fulcro della soggettività umana. L’esito riguarda la sessualità del figlio, la sua possibilità di amare una donna che non sia la propria madre. Riguarda la possibilità di impostare con una donna un progetto di vita nel nome di una relazione d’amore. Riguarda anche la natura del legame con gli altri e con l’altro sesso, l’affettività, la propria identità maschile e altro. Molta letteratura psicanalitica ha posto l’accento sulla madre divorante, castratrice. Tuttavia c’è madre e madre. 

giovedì 7 marzo 2013

SCIENZA, CREDENZE E VERITA'

Dalla rivista di psicanalisi LETTERa
(n. 3, Joyce. Sinthomo, arte, follia, et al./ Edizioni, Milano 2013) pubblichiamo la recensione di G. Ricci al libro di 
GIOVANNI SIAS, Appunti per una nuova epistemologia. Psicanalisi, scienza, verità (ZonaFranca, 2012).


Ci sono eserghi che introducono o ispirano il lavoro di un autore. In questo libro, i due eserghi che Giovanni Sias pone in apertura alla sua ricerca sono molto di più: un programma di ricerca e una precisa direzione indicata dall’ago di una bussola. 



Ecco il primo esergo, di Lacan (da Funzione e campo della parola): “Se la psicoanalisi può diventare una scienza - dato che non lo è ancora - e se non deve degenerare nella sua tecnica - e forse è cosa già fatta - dobbiamo ritrovare il senso della sua esperienza”. La frase - siamo all’inizio degli anni ’50 - luccica ancora oggi, dopo più di mezzo secolo, trasmettendo alcuni interrogativi nell’opaca indifferenza dei nostri tempi. 
     E' una frase che interroga la contemporaneità, che mette il dito nella piaga in quei discorsi (mediatici, culturali, sociologici, universitari) ormai colonizzati da uno scientismo trionfante, dove il riferimento alla tecnica decide il vero e il falso, l’utile e il superfluo, il profitto e il dispendio. Siamo nell’era della misurabilità. 

martedì 19 febbraio 2013

SULL'AMORE E LA SESSUALITA'


Nel terzo numero della rivista di psicoanalisi LETTERa dedicato a “Joyce. Sinthomo, arte, follia” (et al./ Edizioni, Milano 2013) compare un’intervista a 
Massimo Recalcati intorno al suo libro 
Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione (Cortina, 2012). 


Il tema dell’amore attraversa l’insegnamento di Lacan fin dal suo primo seminario. Questo stesso tema torna a essere cruciale anche nell’ultimo periodo della sua riflessione teorica. In particolare, nel Seminario xx, l’amore sembra svolgere un’importante funzione di “tamponamento” della lacaniana inesistenza del rapporto sessuale. Qual è secondo lei a partire da qui il destino e anche il dramma dell’amore nella società contemporanea?


    Il fatto che il tema dell’amore sia veramente un tema capitale per Lacan si spiega con la natura specifica dell’esperienza analitica. L’analisi è un’esperienza attraversata dall’amore. Non solo perché si parla d’amore ma anche perché c’è dell’amore in atto. C’è spostamento, trasporto, movimento, innamoramento primario, in una parola, transfert. 



Non sono d’accordo con l’idea che l’amore sia un “tamponamento” dell'inesistenza del rapporto sessuale. Lacan usa a questo proposito l’espressione “supplenza”: non è mettere un tampone, richiudere la beanza dell’insistenza del rapporto sessuale con un artificio. Supplire significa qui venire al posto di, prendere il posto di.  Non si tratta di chiudere la beanza ma di far in modo che questa beanza generi un nuovo rapporto, un rapporto nuovo col non rapporto. L’esilio dal rapporto sessuale non viene tamponato dall’incontro d’amore perché questo incontro si rende possibile solo se si assume l’inesistenza del rapporto sessuale.


Nel nostro tempo c’è crisi del discorso amoroso perché sembra venir meno l’esperienza del Reale come impossibile. Se non si può scrivere il rapporto sessuale ci si dedica a tamponare - in questo caso il termine è appropriato - il non rapporto scrivendo altri rapporti dove non è in gioco l’alterità irriducibile dell’Altro sesso. Sono i rapporti con l’oggetto inumano che la clinica ipermoderna delle dipendenze patologiche mette in rilievo in modo esemplare. Si preferisce l’accesso immediato al godimento Uno piuttosto di fare il giro più lungo che l’amore impone attorno all’inesistenza del rapporto sessuale.

venerdì 8 febbraio 2013

OMOSESSUALI SI DIVENTA di Giancarlo Ricci


   Come è riscontrabile nella clinica psicanalitica dell’omosessualità maschile, quasi sempre l’orientamento omosessuale nasce e si sviluppa a partire da una carenza simbolica della funzione paterna. Spesso si tratta di padri che hanno abdicato alla loro funzione e che, per vari motivi, non hanno saputo o potuto proporre al figlio una trasmissione “sufficientemente sana” dello statuto maschile. Ci sarà stato padre? 
Giancarlo Ricci,
Il padre dov'era. Le omosessualità nella psicanalisi,
Sugarco Edizioni, 2013 

Nella nostra società se la funzione della legge incontra il tempo di una sospensione o di un eclissamento, ecco affacciarsi il tema della perversione nelle sue varie coniugazioni, spesso socializzate, approvate, addirittura favorite. Certo, l’imperativo del consumo obbedisce qui a una legge di mercato. Che è una legge che, enfatizzando la bandiera della libertà e dei diritti, promuove il compiacimento narcisistico, la sufficienza autoreferenziale, l’obbligo al consumo di nuove e immediate forme di godimento. A discapito del desiderio e a favore di una perversione eretta a sistema. Questa interrogazione ci spinge vertiginosamente verso un punto cieco della contemporaneità che riguarda la questione delle nuove generazioni e del mutamento antropologico in corso

  
“Ho voluto insistere - afferma Giancarlo Ricci - sulle soggettività e sulle omosessualità, al plurale. Siamo per altro consapevoli che vi sono forme di soggettività che vivono con disagio l’omosessualità e altre che vivono serenamente la propria omosessualità. Irrinunciabile è e rimane il rispetto delle libertà e delle scelte individuali. E’ un rispetto verso la differenza, sempre portatrice di fecondità; verso la soggettività che è lo stile della nostra esistenza, verso la sessualità, questa sorta di patrimonio che il nostro corpo ci consegna come moneta vivente

SEGUE L'INDICE del libro Il padre dov'era. Le omosessualità nella psicanalisi (SUGARCO EDIZIONI, Milano 2013)