sabato 24 gennaio 2015

Charlie o non Charlie, un dilemma amletico? Di Giancarlo Ricci

     Molti, moltissimi, subito dopo gli atti terroristici di Parigi, hanno dichiarato: Je suis Charlie. Qualche riflessione. Non tanto sul nominare Charlie, nome assassinato e messo a morte, quanto sull’essere Charlie: Io sono Charlie. Dichiarazione di identità? Orgoglio di appartenenza? Difesa dei valori rappresentati da Charlie Hebdo? La solidarietà qui è assoluta. Ma, proprio per questo, affermare con orgoglio Je suis Charlie ci sembra poco, quasi un’occasione persa. All’offesa possiamo rispondere in modo tremendamente più lungimirante. L’affermazione “Io sono Charlie” ci pare connotata dalla modestia, e altrettanto “Io non sono Charlie” (che osa di più): non suona come l’anima bella ferita nella sua ipnotica identità narcisista? 
Io sono allo specchio - Iccir, 2010
Perchè affermare Je suis Charlie ci sembra poco? Perchè “essere” Charlie significa - con tutto il rispetto - rinchiudersi in un recinto identitario sgangherato. Tra l’altro non so se è stato notato che je suis, in francese, è al contempo voce del verbo être e del verbo suivre: si scrivono e si pronunciano infatti allo stesso modo. Dunque oltre a “Io sono Charlie”, c’è anche “Io seguo Charlie”. Dunque chi sono? Un lettore, un seguace, un follower di Charlie? La mia identità, la “nostra” identità di “occidentali” ha bisogno di un supporter, di un idolo cui aggrapparsi? 
    Proviamo a fare un giro più ampio. Scomodiamo Cartesio con il suo celebre “penso dunque sono”. Non aveva torto, a suo modo, nel far presente che innanzitutto, prima di poter dire Io, occorre che ci sia pensiero. Lo psicanalista Jacques Lacan ha voluto sottolineare che l’inconscio non è addomesticabile dall’astuzia della ragione. Ha così lanciato un aforisma folgorante: “Penso dove non sono, e sono dove non penso”. Un duro colpo alla ragione più o meno illuminata o illuminista, a quella ragione che crede di farla sempre da padrone. 
Lo specchio mi guarda - Iccir, 2010
In effetti con la psicanalisi, abbiamo un corpo a corpo tra l’Io, che presume di farla sempre da padrone, e un territorio impensabile (l’inconscio) dove l’Io non è in grado di pensarsi, piuttosto è pensato. Per questa via i giochi si sovvertono e si rovesciano. Una lotta interminabile insomma, una rincorsa infinita tra guardie e ladri, tra terroristi e polizia potremmo dire oggi, trasponendo. Un seguire e un inseguirsi per avere ragione dell’Altro. Qui i confini svaniscono, il paradigma immunitario impazzisce. Il risultato: la barbarie abita il cuore della civiltà come una sorta di virus autoimmune.
Così nell’orgogliosa affermazione Je suis Charlie, qualcosa, e forse parecchio, rimane nell’ombra, nella finzione della dimenticanza, nel punto cieco della buona coscienza, nel punto vuoto di un’identità che ha bisogno di appoggiarsi a un Altro per poter stare in piedi. Quasi come il dilemma di Amleto: essere o non essere? Chi sono io? Come o da dove trovare il garante della mia identità? Forse che Charlie rappresenta il mio Altro in cui riconoscermi e in cui rispecchiarmi? Soprattutto occorre convincersi che la mia libertà, se è tale, deve avere la caratteristica di essere senza limiti. Tutto il resto non importa. La responsabilità che tutto il resto implica e chiama in causa, non importa.
Lo sguardo dell'angelo - Iccir, 2010
   Qualcosa di indichiarabile e di indicibile si spalanca nella battuta Je suis Charlie, piuttosto fa avanzare un’ombra, una macchia cieca, una zona scotomizzata. E’ talmente macroscopica che non si vede. Un grande studioso di diritto nonchè psicanalista, Pierre Legendre, in un notevole libro dal titolo L’Occidente invisibile (Medusa, 2009), scritto un decennio or sono, notava: “L'Occidente contemporaneo evita di affrontare il fondo, al contempo oscuro e tragico, della questione dell'identità, al punto che, in un paese come la Francia, la parola stessa identità rimane oggi bandita (p. 24).    

     Sì, l’Occidente ha perso il bandolo e pretende di bandire le differenze per affermare una presunta supremazia: “Oggi - prosegue Legendre -  l’Occidente si vede in un rapporto ormai sempre più pericoloso con le culture giudicate ribelli. Resta da afferrare l’Occidente come non si vede, vale a dire straniero a se stesso e tuttavia sempre se stesso” (p.11). E ancora: “La modernità contemporanea sta per affrontare la sua zona d'ombra, in quanto si troverà immancabilmente alle prese con gli effetti di quel che essa misconosce della propria evoluzione:  la minaccia che pesa sul suo rapporto alla Ragione” (p. 8). In effetti, senza accorgersene “siamo i prigionieri di storie genealogiche, gli eredi di un certo modo di costruire la ragione di vivere (…) e per questa via, noi Occidentali, strutturalmente restiamo tanto tradizionalisti e tanto conservatori quanto il resto dell’umanità” (p. 26). 

sabato 17 gennaio 2015

SULLA LIBERTA', SENZA SATIRA. Pensieri su "Charlie Hebdo" e sui nostri occidentali disorientamenti. Di G.Ricci

L’etimo di satira rinvia a saturo, a saturazione, a miscuglio, e anche al gioco sferzante del satiro, creatura lasciva e dedita a voluttuose ebrezze. Ma chi avrebbe immaginato che la satira potesse oggi diventare oggetto di tante pallottole? Dopo le stragi di Parigi è comprensibile che moltissimi parlino di libertà di satira e facciano di questa libertà un emblema assoluto.
Ma è proprio qui che appare un nodo: che la sfrenata libertà di satira venga fatta coincidere con l’emblema della libertà, della Libertà di noi occidentali. Quest’ultimi venerano l’idolo della libertà senza accorgerci che la libertà pone immediatamente la questione stessa dell’altro (e dell’Altro), degli altri, del prossimo, del simile, del Nebenmensch freudiano.
Babele       - Iccir, 2011
  
    

   Gli occidentali gridano che ciascuno deve essere un soggetto libero: libertà di espressione, libertà di pensiero, libertà di godere, libertà di desiderare. Il punto cieco è che non può esistere un “soggetto libero” perché il soggetto (sub jectum), per definizione, è già da sempre assoggettato. Se così non fosse la psicanalisi, ma non solo, non avrebbe più alcun senso, svanirebbe in un soffio. Rimarrebbe (ma già ci siamo) il regno dell’Io, il regno della padronanza e dell’esercizio della libertà, appunto.
Il punto cieco, invisibile e scotomizzato, è che ogni libertà ha il suo foro esterno e il suo foro interno, come dicevano gli antichi, ovvero una doppia responsabilità, verso la dimensione “pubblica” e verso quella “privata”. Più semplicemente: la scissione propugnata dalla contemporaneità, per motivi di business, di ingegneria sociale e di espansione dei mercati, tra il concetto di libertà e quello di responsabilità, promuove allegramente una schizofrenizzazione dei legami sociali e una concezione perversa della comunità. Delocalizza il “pubblico” e il “privato”, offre il diritto al godimento senza limite, addomestica l’alterità a favore dell’alterazione.

Ba-babele      - Iccir , 2011
L’attuale e celebrata enfasi posta sulla satira fa pensare. Nulla contro “Charlie Hebdo”, anzi un omaggio. Ma che sia un omaggio alto, il più alto. Tanta enfasi sulla satira fa pensare perché in fondo la satira è una figura della comicità. La quale è decisamente diversa dal Witz, dove un frammento di verità irrompe accompagnato dalla risata, e ben distinta dalla grandiosità dell’umorismo che, incurante dell’avversità, non ride ma difende a perdifiato l’umano. Freud lo ha insegnato, ma anche Pirandello, Bergson e un numero indefinibile di saggisti, scrittori, poeti, pensatori. 
No, la satira non raggiunge le vette, per sua natura. Vive e talvolta vivacchia all’ombra della trasgressione, del piccolo divertimento, della provocazione. Gioca a scompigliare il “politicamente corretto” (di questo dobbiamo darle merito). La satira attende che l’altro reagisca e accusi il colpo (purtroppo abbiamo visto). Non osa dire cosa realmente pensa ma si appoggia a ciò che è stato detto da un altro per far sentire la sua voce. Vorrebbe avere voce in capitolo ma manca di un pensiero proprio. E allora graffia, punzecchia, giunge sino al sarcasmo, si serve della parodia e della caricatura. Deturpa, sfregia, devasta. Ma soprattutto: dissacra, consacra, massacra. In nome di un voler dire... che non è detto e non si dice. Si può solo immaginare o disegnare.
Post Babele      - Iccir, 2011
    Ahimè, moriremo di satira, noi sedicenti occidentali. Andremo a picco per aver imbarcato troppi satiri con le loro gaie e prevedibili ebbrezze. Moriremo saturi, pieni delle nostre satire. Saturi delle nostre libertà bulimiche, saturi dei nostri diritti preconfezionati, saturi delle nostre coscienze ciniche e imbellettate.  Cediamo a compromessi su tutte le altre libertà, ma alla libertà di satira non rinunciamo. Per dimostrarlo dobbiamo spingere la satira fino alla blasfemia e all’insulto. Ormai, quando tutto è possibile, quando tutto è consumabile e immaginabile, rimane l’effetto speciale. Un incubo.
Il teorema risulta devastante: solo senza un limite possiamo dimostrare di essere davvero liberi. Solo così siamo davvero Occidentali e possiamo esserne orgogliosi. Di ciò che sta tramontando (alla lettera: che si sta occidentalizzando) non ci interessa un bel niente. Del resto se possiamo fare ancora satira sfrenata e gratuita, significa che gli “occidentali disorientamenti” non ci toccano. 
Abbiamo la libertà, ce la siamo guadagnata: abbondante, senza limiti, cieca, sorda, autoreferenziale. Ciò che è accaduto si è incagliato in qualche angolo della nostra memoria e ogni tanto riaffiora. Non importa, avremo pure la libertà di ignorare? Ciò che oggi accade, ogni giorno in qualche angolo della storia, ci getta addosso ciò che non abbiamo voluto sapere. Non importa, abbiamo pure la libertà di scansarci, nevvero? Ciò su cui dovevamo dire qualcosa, qualcosa che ci sfiorava o ci colpiva in pieno volto, è rimasto nel mesto e composto tacere. Perché non potremmo essere liberi di sottacere? Di voltarci elegantemente dall’altra parte? La libertà riserviamola, per favore, solo per cose serie. 
     E così facendo ogni paradigma immunitario si sgretola,
Babele araba - Iccir, 2011
impazzisce, confonde amici e nemici, rende irriconoscibili le libertà vere da quelle apparenti, quelle proclamate da quelle praticate. Rende luccicanti quelle libertà in cui facciamo finta di riconoscerci e con cui amiamo confortarci, e getta nella dimenticanza e nel silenzio tutto il resto. Le pattumiere sono colme di quantità enormi di libertà usate e gettate. L’inconscio non perdona. E ci aspetta al varco quando meno ce lo attendiamo. Non satireggia l’inconscio. E non indietreggia. Avanza a colpi di reale.