domenica 29 settembre 2013

LA COSA PUBBLICA di Giancarlo Ricci

Pubblichiamo alcuni passi tratti dal paragrafo "La tenuta dei ponti" del libro L'ATTO E LA STORIA di Giancarlo Ricci.

La “cosa pubblica” pare proprio non essere più il luogo di una progettualità ma il mercato della spartizione, della connivenza, dello smercio di superstizioni traballanti, di scambi di omertà e alibi. Eppure la collettività, la cosa pubblica, il sociale, la comunità, il gruppo, dovrebbero rappresentare il punto più alto della civiltà, il suo nucleo più laicamente ed eticamente forte.
L’ascolto dell’inconscio insegna. Insegna che se colui che parla non si attiene alla propria parola e alla propria storia, al proprio sentire e al corso dei propri pensieri, le cose si complicano, paralizzano, assumono un peso insopportabile, si mostrano come spettri o chimere indefinibili.
Occorre che le cose, per quanto è concesso all’umano, siano nominate con il loro nome, altrimenti si fa dell’ottundimento un criterio di  presunzione e di permalosità, modi sbrigativi con cui viene nientificato l’Altro e negato l’inconscio. Occuparsi, per lo psicanalista, del disagio della civiltà nelle sue forme attuali costituisce l’altra faccia della clinica: un giro apparentemente più lungo ma che permette di arrivare al cuore delle questioni, di ogni questione. E ciascuna questione è soggettiva e singolare proprio perché chiama in causa una particolare vicenda sociale. L’istituzionale e il soggettivo sono indissolubilmente legati [...]. 
La degradazione della “cosa pubblica” produce una società che  si muove come i ciechi di Bruegel: ciascuno tiene la mano sulla spalla dell’altro, ma nessuno sa dove si stia effettivamente andando. A ben pensarci non è senza enigma questa rappresentazione del sintomo (nell’accezione psicanalitica) che, strutturandosi come “formazione di compromesso”, insistentemente ostacola, osteggia, impedisce. Di sicuro introduce un’economia mortifera di perdita, di dissipazione e di smarrimento.