sabato 25 aprile 2015

LA BANALITA' DEL SUICIDIO E GLI ALTRI di Giancarlo Ricci

L’aereo precipita. Il pilota cerca disperatamente di riprendere quota. Gli alberi e le rocce sotto di noi si avvicinano e si ingrandiscono paurosamente. Molte volte abbiamo visto questa scena, al cinema o alla televisione, comodamente sdraiati sul divano, con le mani che stringevano i braccioli. No, questa volta non c’è il lieto fine, l’istante miracoloso della salvazione. L’aereo finisce contro le rocce con un boato. Tutto finisce.  E pare proprio il trionfo del male. 
Perché facciamo fatica a dimenticare il recente fatto di cronaca del pilota suicida con il suo insano gesto di portare alla morte decine di passeggeri?  Credo perché qualcosa nel nostro immaginario si raddoppia. Siamo abituati nei film a vedere scene del genere: aerei che precipitano, il terrore dei passeggeri, il corpo a corpo tra i buoni e i cattivi, la lotta tra sequestrati e sequestratori. L’immaginario della modernità ama il gigantismo, gli effetti speciali, la sconfitta del male, le azioni degli eroi.  
Eppure il raddoppiamento tra finzione e realtà rende ancora più traumatico l’avvenimento. Anzi, forse, costituisce il trauma stesso: qualcosa che avevamo immaginato si realizza, oltrepassa la finzione dello schermo e ci invade con terrore. Non solo: ciò che avevamo immaginato come le scene più “intense” di un film - l’aereo mentre precipita, il grattacielo in fiamme, il transatlantico che si inabissa - ci intratteneva, occupava il nostro tempo libero. Erano scene che in qualche modo - orribile a dirsi - ci appassionavano o addirittura ci divertivano. Facciamo fatica, in questo contesto, a scrivere la parola “divertiva”: suona come qualcosa di blasfemo o di sacrilego. E così ci troviamo lacerati. Eppure qui, proprio in questo punto così critico c’è qualcosa di opaco che pulsa, quasi un enigma che persiste a non farsi interrogare. 

Da una parte la finzione in cui un evento drammatico viene rappresentato in tutta la sua drammaticità, dall’altra la dura e feroce realtà che replica lo stesso evento dando luogo a una sconvolgente tragedia. Non c’è, non può esserci, mediazione possibile. Anzi c’è uno iato, una scissione, un baratro tra questi due territori. E noi ci troviamo in mezzo a questa divisione, sospesi nello stupore e nell’incredulità. Ci chiediamo non tanto come è potuto accadere, ma per quale via ciò che abbiamo immaginato nella finzione abbia potuto avverarsi. E’ proprio qui il punto di un’incrinatura insanabile. Come quel celebre attore che l’11 settembre 2001, dalla finestra del suo hotel, vede le fiamme avvolgere le Torri Gemelle. Incredulo accende la televisione per verificare se fosse vero. E lo schermo trasmette appunto, in diretta, il crollo delle Torri. 
Questi spunti aprono una serie di questioni. Tra le tante ci soffermiamo sul tema della distruzione e della pulsione di morte, come la chiama la psicanalisi. A tal proposito le pungenti parole di Dostoevskij in Memorie dal sottosuolo lasciano intravedere una prospettiva sorprendente: “L’uomo talvolta ama tremendamente la sofferenza addirittura fino alla passione [...]. Ama creare e aprirsi nuove strade ma allora perché egli ama così appassionatamente anche la distruzione e il caos?”. Non è facile rispondere a questa domanda. Che rimane in bilico come una piuma tra il tema del male e quello dell’umano, tra il destino e la scelta, tra la constatazione della necessità e l’istanza della libertà. 
     Il soggetto umano, nel nostro caso, è un pilota d’aerei. Un semplice pilota. Ma non potremmo parlare di un semplice suicida, né tantomeno della banalità del suicidio. Perché il vero enigma pare coincidere, anche qui, con una sorta di diabolico raddoppiamento: Il gesto di togliersi la vita, e per tragica conseguenza portare alla morte decine di passeggeri. Questo doppio l’enigma si coniuga in modo indissolubile con l’istanza della giustizia. Perché mai per darsi la morte occorre far morire altre 149 altre persone? Non ci sono risposte possibili. Solo crude constatazioni e parecchie altre domande: da dove proviene il distruggere umano, quel distruggere "di fronte al quale - osservava Jacques Lacan - persino gli animali feroci recedono inorriditi"? Qui le nostre considerazioni terminano, o meglio, come una piuma rimangono in bilico tra l’umano e l’inumano. Una vertigine.