mercoledì 27 novembre 2013

LA DIFESA DEL SOGGETTO di Silvano Petrosino


Alcuni brani dell'intervento di Silvano Petrosino in occasione della presentazione del libro L'atto la storiadi G. Ricci
 (Galleria San Fedele, Milano, 7.11.13)

Sono rimasto colpito da questo libro; mi sembra un contributo che porta alla riflessione sulla vicenda del papa ma anche, in generale, sul nostro tempo. Mi sono soffermato sul concetto di atto che nell’interpretazione che ne dà l’autore viene presentato come atto psicoanalitico. Riprendo solo due righe dal libro: “Quello di Ratzinger - scrive Ricci  - è stato un atto analitico”. E prosegue:  “L’atto in psicanalisi ha una particolare rilevanza: esso effettua  uno spalancamento che consente a un frammento di verità di  prendere voce, per esempio nel lapsus, nel sogno, nella dimenticanza.
L’atto comporta  l’emergenza di una verità rimasta  latente, dà voce a pensieri inconsci che erano silenti”. L’idea da cui prende le mosse è che le dimissioni di Benedetto XVI costituiscano un atto di questo tipo. Ora, rispetto a che cosa? Quale sarebbe il punto di verità che emerge? Sono d’accordo con Mussapi nel dire che è un’interpretazione assolutamente laica; il discorso dell’autore ha una pretesa veritativa che va al aldilà del rapporto tra credenti e non credenti. Quale sarebbe dunque il punto di verità che emerge?


Per l’autore è in questi termini: “L’atto si affaccia sull’alterità, la chiama a manifestarsi”. E parlando del gesto di Benedetto, prosegue: “Dal punto più alto della responsabilità non rispondo più della vostra assenza di responsabilità e io stesso mi espongo senza sottrarmi alla responsabilità di attuare un atto che lascia in sospeso l’attribuzione di responsabilità”. Mi sembra una formulazione felice e, anche in seguito, il testo prende un respiro interessante.
La nostra è una società a capitalismo avanzato, di consumismo o di tecnonichilismo come è stato detto, è un insieme in cui si mischia il processo di secolarizzazione e di avanzamento tecnologico. Se dovessi dire velocemente in che cosa consiste il pericolo maggiore di questa società direi che è l’idea che si possa costruire una società in cui non è più necessario essere buoni. Costruire una società con un tale meccanismo e una tale perfezione, con questa ingegneria degli interessi che alcuni identificano nella politica, con questo equilibrio assoluto rappresentato dalla tecnologia, dalla mappatura del genoma umano, dal cognitivismo, è una sorta di delirio, sarebbe, in termini psicanalitici, dell’ordine del delirio. 

mercoledì 20 novembre 2013

DRAMMATURGIE DEL NOSTRO TEMPO di Roberto Mussapi

Alcuni passi dell'intervento di Roberto Mussapi alla presentazione del libro "L'atto la storia" di G. Ricci (Milano, 7.11.13).
L'intervento completo:


(...) La scelta straordinaria, epocale, di Benedetto XVI viene interpretata da Ricci innanzi tutto come un evento drammatico, come qualcosa di sconvolgente, perchè noi siamo abituati a ricevere dagli uomini depositari della sapienza religiosa del mondo insegnamenti disciplinari o traduzioni di visioni. Ma qui c’è un gesto fisico, un gesto immediato, diretto, a cui seguirà un gesto inaspettato, l’arrivo di un papa completamente imprevedibile. E’ importante la complementarità drammatica. Ricci vede come l’uno sia l’altra faccia dell’altro: così come uno è talmente aderente al senso profondo di un rito da capire come questo rito nel momento in cui è reiterato, viene deritualizzato, così l’altro, quando giunge, ripropone in forme nuove il rito. 

E’ interessante anche il fatto che il libro pone questo evento, che avviene all’interno della Chiesa, come un modello che dovrebbe essere seguito nella società, ad esempio l’abitudine etica alle dimissioni, a non sentirsi onnipotenti, insostibuibili. L’idea delle dimissioni implica anche un concetto di ereditarietà diverso da quello tradizionale. Io non ho nessun potere da trasmettere a qualcuno. Il potere, il potere spirituale, nel senso buono, non il potere di cui parlava Pasolini, mi è dato in prestito, esattamente come la poesia. Il giorno dopo che Leopardi ha scritto L’infinito non può alzarsi e pretendere di riscrivere una poesia così. Magari non la farà mai più. Perchè la poesia gli è data in prestito e questo prestito può essere onorato solo con la dedizione, con l’applicazione, con il lavoro, come fa un prete, un poeta, un fabbro, un orefice o un panettiere. Con la differenza che nella poesia e nelle arti dello spirito qualcosa passa, viene in contatto con noi, e noi dobbiamo trasmetterlo, crearne forme, ma sapere che non è nostro. 


Concludo con questa metafora: l’opera, il capolavoro dei capolavori di Shakespeare, il capolavoro del teatro di tutti i tempi, accanto all’Amleto,  è la Tempesta. Il mago Prospero ha un potere praticamente assoluto, crea la tempesta, controlla tutto, incanta i suoi nemici animato da un desiderio che noi oggi diremo di vendetta ma che in realtà è di giustizia, dato quello che ha subìto, ma lo fa per ragioni di amore: per la figlia che si innamora del figlio del suo nemico e per altre ragioni. Comprende che, non solo deve perdonare il suo nemico ma che deve rinunciare ai suoi poteri magici. Così nel momento in cui ha capito la realtà dell’amore e della compassione, non può più considerarsi un mago eternamente. Quindi dopo avere compiuto i suoi miracoli, se ne va in pensione, spezza la bacchetta magica, la lancia nel fondo del mare dicendo: la magia abita nei misteri dell’abisso. In ciò si rivela un vero sapiente, un grande mago. Crea una grande riconciliazione. Secondo la mia interpretazione Ricci ha indicato in Benedetto un grande sapiente che ha compiuto questo gesto. Ma ciò non riguarda solo il mondo cattolico, è un esempio di comportamento in un mondo che ha bisogno di lezioni di rinunce e di rigenerazione di questo genere. (Trascrizione non rivista dall’autore).