martedì 13 settembre 2016

TRAUMA E PERDONO. Francesco Migliorino interviene sul libro di Clara Mucci


L'intervento del giurista Francesco Migliorino 
in occasione della presentazione del libro di Clara Mucci, Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale,
 (Raffaello Cortina Editore, Milano 2014) 
è di grande attualità.
Il titolo: 
«L’Histoire avec sa grande hache» 
(la Storia con la sua grande ascia)

di Francesco Migliorino*

“Je n’ai pas de souvenirs d’enfance”: je posais cette       affirmation avec assurance, avec presque une sorte de défi. L’on n’avait pas à m’interroger sur cette question. Elle n’était pas inscrite à mon programme. J’en étais dispensé: un autre histoire, la Grande, l’Histoire avec sa grande hache, avait déjà répondu à ma place: la guerre, les camps... 
     (G. Perec, W ou le souvenir de l’enfance,  Denoël, 1975) 


Vorrei provare a discutere il bel libro di Clara Mucci cominciando a leggerlo dalla fine. Meglio, dalle ultime parole di una citazione di Elie Wiesel: «qualunque sia la domanda, la disperazione non è la risposta» (p. 235). Un’apertura di senso, un ricominciare daccapo, l’incontrario di quel che ci si aspetta dalla conclusione di un libro. Una sorta di esergo messo volutamente fuori posto, che dà conto di un doloroso percorso di chi era ancora piccino per ricordare o di chi si sentiva troppo d’impaccio per raccontare. «Trauma» e «perdono» stanno affiancati nel titolo, ma è come se fossero la ‘prima’ e la ‘quarta’ di copertina, in mezzo una miriade di campi che sono al lavoro nel setting analitico, il cui esito non è mai dato per scontato: realtà e fantasia, Io e Tu, interno ed esterno, presente e passato, vittima e persecutore, lutto e depressione, devastazione e riparazione. Ancora con la scrittura aspra di Wiesel: «dall’orlo dell’abisso al sogno della redenzione».

Lungo questa via, nella trama narrativa restano impigliate vite offese e storie maledette che mettono a nudo — col loro carico d’infranto — il coinvolgimento emotivo del lettore, anche del lettore profano che fa fatica a orientarsi nella sterminata testualità in cui il nostro libro è venuto alla vita. 
C’è una ragione di ciò. L’Autrice ha una grande capacità di mettersi in dialogo col lettore e anche con se stessa. È evidente, ad ogni pagina. Per dirla con Wayne Booth, geniale teorico della narrazione, nel nostro caso l’autore implicito e il lettore implicito (creature etico-ideali dell’autore) raggiungono un accordo così pieno e completo da connotare la ‘letterarietà’ dell’opera. Il giudizio sul libro, perciò, è inseparabile dall’empatia che riesce a costruire con chi lo legge. Come per i testi narrativi, anche qui siamo portati «ad ammirare o detestare, amare o odiare» (1). Storie di ordinaria miseria che tracciano il perimetro stesso dell’umano: quella del bambino che «rende l’anima» per sopravvivere alla morte, o del piccolo Patrick che se ne sta seduto sul bastone della tenda per svanire dietro la pelle del geco, o del giovane James che abbandona il suo corpo galleggiando fino al soffitto per farsi una ragione di una cosa sbagliata (così la chiama!). Storie simili, fin troppo simili, all’universo psicotico dei campi, al «Warum?» di Primo Levi, al silenzio dei «salvati», col loro fardello di sofferenze psichiche che trapassano e prendono vigore da una generazione all’altra. Nelle pagine del libro, parole come «Umano», «Etica», «Relazione», «Empatia», «Memoria» sono fra quelle col maggior numero di occorrenze. A partire da queste parole, proverò a raccontare la mia personale esperienza di lettore.
Questo libro ha un’anima. Un nucleo duro che ne sostiene l’impianto teoretico e l’ispirazione etica, l’ermeneutica e le strategie cliniche. Da qui forse bisogna partire, dalla «realtà del trauma» che Clara Mucci assume come chiave euristica fondamentale. Per questa via, presente e passato, individuo e società, realtà e rappresentazione, natura e cultura non sono coppie oppositive, danno vita piuttosto a universi di significato fra loro interconnessi, in cui uno dei due poli passa nell’altro e viceversa. Dialetticamente, nel senso genuinamente hegeliano. 
Il trauma come lettura della contemporaneità. Leggiamo in proposito alcuni passaggi del nostro libro. Per Caty Caruth, alle radici del trauma c’è la Storia, con la maiuscola (2): «in una età catastrofica, il trauma stesso può offrire il trait d’union tra le culture», al punto da far dire alla nostra Autrice che «nel trauma perpetrato da mano umana, ciò che è umano definisce anche l’inumano» (Mucci: p. 6).
 E ancora: «dopo l’esperienza dei traumi reali con cui il Novecento si è dovuto misurare (guerre, eccidi, catastrofi, stermini, pulizie etniche, torture) […] una riformulazione del trauma sia psicoanaliticamente sia eticamente è diventata necessaria […] la verità dell’esperienza traumatica non è una patologia legata alla falsità o allo spostamento del significato, ma alla storia stessa» (p. 49). Con le stesse parole di Werner Bohleber, «con le esperienze estreme vissute e sofferte dagli uomini del XX secolo, il trauma si è trasformato in cifra interpretativa: non solo la psicoanalisi, ma anche le scienze umane hanno sperimentato la necessità di recuperare la ricerca e la comprensione in quest’ambito». È del tutto condivisibile, perciò, che Clara Mucci assuma la Shoah come radicale «cesura storica ed epistemologica» (p. 71).

È pur vero, però, che l’universo traumatico — coi suoi effetti di disregolazione affettiva, obliterazione del reale, dissociazione del Sé, disturbo di personalità, incorporazione fantasmatica dell’aggressore — ha tante scale di grigio. Dall’attaccamento disorganizzato e insicuro madre-bambino ai maltrattamenti, dall’abuso sessuale all’incesto, dal trauma cumulativo fino a quello sociale massivo. Nei casi più gravi, traumi perpetrati da mano umana producono, col tempo e da una generazione all’altra, comportamenti autodistruttivi e distruttivi delle relazioni interpersonali, deficit immunitari, stati di iperarousal e ripetuti mortiferi kindling. Emozioni troppo forti che sfuggono al controllo della coscienza — in ogni evento, grave o meno che sia — sono il risultato di una sorta di disconnessione tra la zona corticale orbito frontale e il sistema limbico di destra, specialmente l’amigdala e l’ippocampo.
Aggiungerei anche che ben prima del Novecento gli umani hanno vissuto «esperienze estreme» — come le chiama Bohleber — di indicibile crudeltà e ferocia. Ogni volta, per tantissime volte, nello spazio liminale tra umano e inumano. A volerle mettere in elenco, un lunghissimo elenco, lasceremmo fuori quelle storie che — come le carte dell’Impero di Borges — si sono disperse lacere sotto l’inclemenza del sole e degli inverni (3). Eppure, non usiamo il termine «trauma» per descrivere lo squartamento dei condannati a morte, o le grida lancinanti dei supplizi, o i roghi degli eretici, né proviamo una particolare empatia per gli Alemanni trucidati e annientati dai Franchi. C’è una ragione, forse. Il trauma, come evento «reale», vive come tale in un campo che lo significhi. Per essere indagato come fenomeno, non solo individuale, ma soprattutto sociale e culturale, non si può prescindere dalla sua contestualizzazione storica.