domenica 28 dicembre 2014

L'ascolto dell'analista.Testimonianza di Suzanne Hommel.



 Gestapo come geste à peau
  Il breve racconto di Suzanne Hommel, psicanalista dell’Ecole de la Cause Freudienne e dell’AMP, evoca una seduta con Lacan avvenuta nel 1974. E’ il frammento di una testimonianza intorno alla pratica clinica, al lavoro della parola e del significante.
 L’ascolto dell’analista restituisce un altro senso al corpo, alla carne, alla pelle. L’inconscio talvolta è a fior di pelle. Dal significante Gestapo ritorna per via acustica geste à peau: la carezza di Lacan è un gesto che si scrive sulla pelle, un gesto a pelle. Non rimane senza effetti (Giancarlo Ricci).
   Ma è anche la voce di Hommel - rauca, lontana, affaticata - a colpirci. Viene da lontano, da un'altra regione, da una memoria che stenta a ritrovarsi, che resiste ad affacciarsi al ricordo. 
  La testimonianza è tratta dal film di Gérard Miller “Rendez-vous chez Lacan” (2011).

giovedì 13 novembre 2014

EPPUR SI VIVE. Di Giancarlo Ricci

Note di lettura di G. Ricci al libro di Alberto Antonio Semi    Psicoanalisi della vita quotidiana (Cortina)

Porre l’accento sulla quotidianità, come del resto fece Sigmund Freud con il suo celebre Psicopatologia della vita quotidiana che nel 1901 apriva il sipario sul nuovo secolo, comporta di fatto una sorta di anticipazione, di accelerazione. Il rassicurante motto “eppur si vive” non appartiene più all’età dell’oro della semplicità. Infatti non siamo più in attesa del futuro, ma è il futuro che ci rotola addosso, che ci investe violentemente e concretamente. E ci trova impreparati, addirittura frastornati nel tentativo di capire se qualcosa è già avvenuto o stia ancora accadendo. Come se la nostra memoria - storica, soggettiva, epocale - avesse cambiato, improvvisamente e senza informarci, il suo sistema di rappresentazione e la sua coerenza. Così la quotidianità e il quotidiano lavoro della nostra psiche, giorno dopo giorno, sembrano perdere la loro forza progettuale, sembrano sfaldarsi nell’impatto con il reale di tutti i giorni. 


Quasi non ci accorgiamo che i nostri piedi sono sulla terra e che camminano, giorno dopo giorno e ora dopo ora, nell’“ordinaria  straordinarietà della quotidianità”. Parole, quest'ultime, con cui lo psicoanalista Antonio Alberto Semi, nel suo ultimo libro Psicoanalisi della vita quotidiana (Raffaello Cortina), lancia il suo invito: “Forse sarebbe ora che tutti cercassimo di tener conto dell’inconscio nella vita quotidiana, del lavoro che implica, delle difficoltà che comporta ma anche delle possibilità che la considerazione dell’inconscio apre ai nostri occhi”. In fondo, e la sensibilità di Semi lo evidenzia in vari punti del suo lavoro, la nostra percezione del tempo è mutata e sta mutando. “Da un lato l’umanità punta, perché ne ha bisogno, sullo sviluppo dell’individuo, ma dall’altro cerca disperatamente (e spesso ci riesce) di combattere e reprimere lo sviluppo della soggettività”: ecco un punto decisivo che riaffiora spesso nel libro. E’ il tema della soggettività, che oggi sembra perdersi nei miraggi di risposte facili e rassicuranti. “Si rischia di essere travolti dall’ondata di ritorno del biologismo, del cognitivismo, dalla richiesta di guarigione rapida”. Di sicuro la complessità della realtà concreta dei nostri giorni ci costringe a uno sguardo sulla contemporaneità un po’ meno trasognato e decisamente più realista. 

mercoledì 17 settembre 2014

AUTORIZZARSI e AUTORITA'. Di Giancarlo Ricci


Pubblichiamo la prima parte dell'articolo di Giancarlo Ricci su "Autoritas e autorizzarsi" relativo allo statuto dello psicoanalista. L'articolo è uscito presso il  4° numero dei Quaderni LETTERA dedicato a "Cura e soggettivazione" (Mimesis, 2014). 

“Come sperare di far riconoscere uno statuto legale a un’esperienza di cui non si sa neppure rispondere?”. In questa radicale e decisa considerazione che Jacques Lacan rilancia in un intervento successivo alla celebre “Proposta del 9 ottobre 1967”, l’accento è posto sulla consistenza giuridica, addirittura legale, dell’esperienza analitica. Come risponderne oggi, dopo quasi mezzo secolo? 
I tempi sono parecchio cambiati da quegli anni lontani eppure così fondativi. Se gli scenari sociali, istituzionali, giuridici (la Legge Ossicini) sono mutati, le questioni che rimangono aperte in merito allo statuto dello psicanalista, alla sua formazione, al suo riconoscimento sono quanto mai attuali. 
Soffermiamoci sulla frase iniziale di Lacan. In sintesi egli si interroga intorno alla possibilità di fondare un’esperienza, quella psicoanalitica, che abbia a pieno titolo una consistenza giuridica. Nelle annotazioni che seguono proponiamo  alcune riflessioni relative alla differenza tra due concetti basilari del diritto, quello di potestas e di auctoritas.
    Nella loro distanza infatti scorgiamo alcuni interessanti elementi che possono contribuire alla riflessione sull’esperienza dello psicoanalista. Ci sembra infatti che un’elaborazione analitica dello statuto dello psicoanalista non possa fare a meno di passare dalla differenza tra potestas e auctoritasPartiamo da alcune notazioni generali. Il diritto allo stato puro consiste nell’esercizio della potestas, ossia del potere di decidere, di nominare, di istituire una legge o una norma. Nel diritto romano, in alcuni casi era anche il potere di vita o di morte su qualcuno. Invece l'auctoritas, semplificando, indica un potere attribuito, supposto, e quindi si svolge sul versante dell’effettualità: è quell’istanza al quale rivolgiamo la nostra domanda sperando di ottenere una risposta efficace, feconda, in un certo senso improntata alla nostra soggettività e al modo con cui percepiamo l’Altro. Balza agli occhi la prossimità tra il concetto di  auctoritas e quello di soggetto supposto sapere  elaborato da Lacan a proposito della struttura del transfert.
E' interessante notare, parallelamente, che sul piano della teoria del diritto, il concetto di auctoritas presenta alcune contraddizioni e paradossi. È come se il diritto non potesse fare a meno di recepire la questione del transfert e cercasse una soluzione logica per neutralizzarla, per desoggettivarla in nome di un universalismo. Per definizione l'auctoritas  è la proprietà dell'auctor, cioè della persona (per esempio il pater familias ) che interviene per conferire validità giuridica all’atto di un soggetto. Auctor - precisa Benveniste - è “colui che promuove, prende un’iniziativa, che è il primo a produrre una qualche attività, colui che fonda”.  Auctor proviene dal verbo augeo, ossia aumentare, accrescere, “far esistere”, “produrre qualcosa dal proprio seno”. 
Giorgio Agamben nel suo lavoro Stato di eccezione, dopo aver considerato il tema della festa, del lutto e dell’anomia, dedica un paragrafo alla problematica relativa alla dialettica tra autoritas e potestas. Per esempio annota: “È sufficiente riflettere sulla formula auctor fio (diventare autore) e non semplicemente auctor sum (sono autore) per rendersi conto che essa sembra implicare non tanto l’esercizio volontario di un diritto, quanto il realizzarsi di una potenza impersonale nella persona stessa dell’auctor”. E più avanti propone un’interessante considerazione: “Ogni autore è sempre co-autore: l’autoritas non basta a se stessa: sia che autorizzi, sia che ratifichi, essa suppone un’attività estranea che essa convalida”. Se leggiamo queste parole nel contesto relativo all’autorizzarsi in quanto analista, scorgiamo la necessità logica di un’associazione psicanalitica. “L’autoritas infatti non basta a se stessa”. Esattamente come l’autorizzarsi analista da solo risulterebbe problematico.

mercoledì 27 agosto 2014

LE CITTA' DI FREUD. Di Tiberio Crivellaro


Uscito sul giornale LA SICILIA (15.8.2014), il testo di Tiberio Crivellaro ripercorre il libro di G. Ricci Le città di Freud. Viaggi, orizzonti, emblemi di un viaggiatore (Jaca Book). 
In Sicilia ogni luogo era, nel viaggio di Freud, l'occasione di un'ispirazione che produceva altri pensieri. 

Davvero singolare il modo in cui Giancarlo Ricci, ne Le città di Freud (Jaca Book), documenta i viaggi dello psicanalista viennese. Freud viandante che percorre la mitteleuropa antecedente e successiva al primo conflitto mondiale. Da Freiberg (luogo di nascita - 1856) al Mediterraneo e all'Atlantico, fino a Londra (1938). Nei continui itinerari dal sapore significante, il seme della curiosità lo porterà alla fioritura della psicanalisi. Un'avventura intellettuale e scientifica di portata senza eguali.

Nel libro, le città considerate dall'autore sono quaranta. Disposte in ordine cronologico per via di certe scelte o motivi che determinano pause temporali cui, si è certi, vi sono stati tentennamenti, timori, perfino fobie. Come, ad esempio, quella di viaggiare in treno, che causò ansia e panico per 15 lunghi anni. Queste città, oltre i presupposti scenici, forniscono prospettive evocative accendendo micce per profonde elaborazioni che lo hanno portato a strutturare i complicati meccanismi dell'inconscio.

Nel suo "diario di bordo", Freud stende con cura le sue impressioni trattando artisticamente la parola; la topica dell'analista che riorigina territori sepolti, dimenticati o sconosciuti con la lingua dell'inconscio, talmente particolare da assumere valore poetico nonché mitico del moderno Odisseo. Qui, Ricci, con mestiere, rianima molte delle notazioni di Freud intorno i suoi viaggi, alle sue "erranze". Ricci è detective straordinario quando si avvale di aurei indizi atti a seguire la pista fino all'approdo. Indizi specificati nei sei capitoli: "Porta Orientis"; "Girovagando"; "Il Mediterraneo"; "L'Altro Continente"; "La Seconda Europa"; "La città Ultima". Gli approdi (perché di riuscita si tratta) di Freud non sono solamente le grandi capitali quali: Vienna, Parigi, Berlino, Praga, Zurigo, Atene, Roma, New York, Budapest e Londra, ma anche città minori e centri più piccoli non assolutamente trascurabili.

Tra le regioni italiane spicca la Sicilia. In una lettera a Jung (1910), affermerà: "La Sicilia è la regione più bella d'Italia". Il suo attraversamento da Messina a Palermo, a Siracusa avamposto della grecità, poi Ragusa, fino alla Catania dei luoghi mitici di Odisseo. Ricci, precisa che ogni città visitata è una tappa, una svolta, da cui scaturiscono idee, pensieri, congetture. Ogni città ha la sua impercettibile o appariscente piega. Distanze e orizzonti sono prospettive notate quasi compiutamente col rigore del protocollo scientifico. Le città dell'infanzia evocano, in quelle della giovinezza le note si fanno rapsodiche. L'avvicinamento alla mediterraneità è sul "versante del labirinto", e Roma è quel mito che inaugura l'oltrepassare le "Colonne d'Ercole" (per Freud ha significato andare oltre il padre. Da ciò la redazione del saggio intorno il parricidio?). Mentre nell'esilio londinese l'indignazione freudiana consente la stesura del saggio "Mosè e il monoteismo" riferendosi all'omonima scultura di Michelangelo vista a Roma.
Le notazioni intorno all'itinerario freudiano - come sottolinea Carlo Sini nella prefazione - indicano punti di fuga, zone d'ombra, incertezze, che definiscono il sapere inconscio, un sapere senza fissa dimora. Freud, insomma, attraversa costantemente un lungo ponte che lo conduce "dove nessuno è mai stato prima, più lontano, magari, di quanto si fosse desiderato".
Il libro di Ricci, oltre "l'archeologica" avventura freudiana, regala un supplemento affascinante. Col suo stile poetico ci fa intendere come si struttura e funziona la psicanalisi; un avviamento a quel sapere fin troppo bistrattato dalle molteplici per-versioni scientifiche che affollano la credenza popolare. In questo senso, gli ultimi due capitoli sono fondamentali.

lunedì 21 luglio 2014

IL LAVORO ONIRICO SECONDO FREUD. Di Giancarlo Ricci


Nella notte tra il 23 e 24 luglio 1895, a Bellevue, Sigmund Freud dichiara di essere riuscito a interpretare compiutamente il sogno dell'interpretazione a Irma. 
Oggi, 24 luglio 2014, dopo 120 anni, G . Ricci ne parla in una trasmissione di WIKIRADIO su RADIO TRE.




Per diversi anni Freud trascorre con la famiglia la villeggiatura estiva a Bellevue, quasi fosse un luogo in cui sorgono altre immagini e soprattutto altre idee. "Le mattine e le sere sono incantevoli; profumano anche le acacie e i gelsomini, sbocciano le rose canine e tutto accade all'improvviso. Non credi - chiede a Fliess - che sulla casa un giorno si potrà leggere questa lapide: In questa casa il 24 luglio 1895 al Dr. Sigm. Freud si svelò il segreto del sogno? Ma per ora le prospettive sono minime".  
    Proprio in quei giorni da Bellevue annuncia all'amico Fliess che ha incominciato a redigere un' "esposizione sommaria" del suo progetto di psicologia generale: "Il mio cervello riposato ora risolve come per gioco le difficoltà finora accumulate". In quella  giornata di luglio, dopo aver lungamente analizzato un proprio sogno (quello dell'"iniezione a Irma"), riconosce con soddisfazione di aver portato a termine compiutamente e per la prima volta, un'interpretazione. E' un lavoro inaugurale. Bellevue diventa il luogo che apre una nuova fase di ricerca, nonostante le inquietudini e i tentennamenti. 
La fantasia relativa alla lapide che avrebbe dovuto inscrivere sulla pietra l'avvenuta decifrazione del "segreto del sogno", si realizzerà nel 1977, quando a villa Bellevue fu effettivamente affissa quella lapide con le parole immaginate da Freud. "Si pensa a quel paesaggio e a Freud che lo guardava - annota Claudio Magris in Danubio - leggendo nei profili curvilinei della città lontana una mappa dei meandri interiori, mai esplorati del tutto."

martedì 24 giugno 2014

IN VERITA' FARLA FRANCA. Di Giancarlo Ricci


Da un recente fatto di cronaca in cui l’esame del DNA avrebbe  identificato l’autore di un omicidio (caso Gambirasio), prendiamo spunto per alcune curiose riflessioni. La densa trama di implicazioni retroattive interroga  sul senso della verità. Qui la scienza genetica, non lo scientismo, sembra  - o così pare - raggiungere davvero la verità, toccarla, sottometterla, folgorarla. Renderla un dato di fatto. Ma è proprio così? Gli umani riescono ancora a mentire o inventano altri modi per evitare la verità? 

Tre brevi notazioni. La prima: la verità è una struttura reticolare, avvolge la logica di un discorso, le fornisce consistenza. Ogni elemento sussite in relazione agli altri, li tiene collegati, assicurandone coerenza. Ma, ecco il punto, quando un elemento si frantuma, quando si combina con l’imprevedibile, l’intera struttura vacilla, si sgretola. Quel piccolo dettaglio si ingigantisce e cresce a dismisura. Minuscole verità si aggregano fino a diventare un macigno. 

Un piccolo   riverbero diventa cosa mostruosa. E se la verità avesse una natura pulviscolare fino a diventare irriconoscibile? E’ questa l’ipotesi che Pirandello amava indagare. Nel suo La signora Frola e il signor Ponza, suo genero (1917) l’impossibilità di attribuire la follia, di riconoscere il fantasma, di definire la realtà mantengono la verità al suo grado zero. E lì la verità rimane, irrimediabilmente; giace in uno status inattivo, impensabile, quiescente ma sempre potenzialmente esplosivo. 
La seconda. In questo caso giudiziario come nella vicenda di Edipo, è dalla madre che la verità origina. Da lei si srotola il filo che raggiunge il figlio e lo lega a sè, fino a stringerlo in un abbraccio mortale. Come accade nella tragedia Edipo Re, Giocasta, madre di Edipo, non è affatto innocente. Il suo silenzio raddoppia il silenzio del figlio, fino a strangolarlo. La sua colpa si moltiplica in quella del figlio, fino a diventare un inconsapevole atto di accusa. La verità, nella sua multiforme trama, opera secondo un’intelligenza diabolica in quanto agisce attraverso il doppio laccio della “verità storica” e della “verità materiale”, come ricordava Freud. Duplice registro, duplice laccio, duplice bordo. Non si sfugge. La verità lavora sembre altrove rispetto a dove la si cerca, come insegna Lacan nella sua “La lettera rubata”. Giunge sempre a destinazione e si fa leggere sempre dal lettore sbagliato. Avrà le gambe corte ma sa alla perfezione dove recarsi.

La terza riflessione merita uno svolgimento più ampio. Questa vicenda giudiziaria, nella logica che sottende, evoca un emblema della nostra epoca: il farla franca. Siamo evidentemente al di là della vicenda accaduta. La beata innocenza del farla franca promette di non pagare la franchigia, di annullare il debito, di passare nell’impunità. Ecco il vero volto della verità nei nostri tempi. Viviamo nella società del farla franca. La quale ci insegna a fare in modo che la nostra stessa soggettività possa congegnarsi e conformarsi alla modalità del farla franca. Questa diffusa propensione non annuncia forse una svolta antropologica? L’Uomo non si lancia più nel  disumano confronto con una Verità irraggiungibile, ma si attiene alla piccola economia che gli assicura di farla franca. 
Riuscire a gabbare la verità è una credenza diffusa anche nelle scelte che si compiono rispetto alla soggettività. I “nuovi sintomi”, come osservano alcuni psicanalisti, si configurano per il loro sganciamento dalle logiche dell’inconscio. Lui lavora incessantemente io la faccio franca e posso vivere alle spalle dell’inconscio. Questa strada, occorre ricordarlo, procede parallela a quella dell’inclinazione perversa. E’ un altro volto della perversione. 
Insomma: è finita l’epoca in cui si riteneva che l’istanza della verità fosse l’opposto della menzogna, che il suo svelamento dovesse essere totale per evitare un’eventuale omissione. No, in epoca di diffuso cinismo, la verità ci interessa solo per riuscire a capire se possiamo farla franca. L’uomo contemporaneo, con le sue astute potenzialità cognitive e con generoso spirito  individualista, esercita il pensiero come esercizio di disinnesco: semplicemente farla franca. Non impedire alla verità di esistere, ma lasciarla vivere in pace, semplicemente apprezzarla come un prestigioso oggetto di arredamento. Una volta bonificata la ammiriamo, innocua. Ogni tanto ci guarda, o forse ci riguarda. Non importa, ormai siamo convinti di averla fatta franca. Rimane solo un senso di inquietudine, come se qualcosa continuasse a incombere... Eppure ero sicuro di averla fatta franca. 

mercoledì 18 giugno 2014

PRIMA CHE SIA TARDI. INCONTRO CON LA VIOLENZA. Di Claudia Rubini

Pubblichiamo alcuni passi dell'articolo di Claudia Rubini sulla violenza uscito presso i Quaderni LETTERA il cui ultimo numero è dedicato a CURA E SOGGETTIVAZIONE (a cura di A. Zanon, Mimesis, 2014) 

 I numerosi fatti di cronaca parlano, ogni giorno, di violenze perpetrate all’interno di legami affettivi; in diversi casi, purtroppo, se ne parla perché ragazze o donne vengono uccise da chi si presumeva dovesse amarle. Si sa sempre molto poco di queste donne e delle loro storie, ma c’è un aspetto comune che si trova sempre quando si legge di loro: “è stata una tragedia annunciata”; il passaggio all’atto violento che ne ha determinato la morte avviene, solitamente, dopo mesi o anni di maltrattamenti e violenze. 
Cosa si può fare per contrastare il fenomeno della violenza? Cosa si può fare prima che sia tardi? Da un lato, l’operazione che a livello culturale, sociale, mediatico si sta tentando di produrre è una focalizzazione sul maschile; tra i temi trattati, in primo piano c’è sempre di più quello che interroga gli uomini, la loro posizione di carnefici e come questa possa evolversi, modificarsi, produrre un possibile cambiamento [...].
Quando si parla di violenza sulle donne si parla davvero delle donne? O si parla di quante botte hanno preso, quante costole rotte, quali organi danneggiati, come sono state uccise? Solitamente sappiamo da quanto tempo stavano con il loro carnefice. Ma sulla loro posizione ci si interroga mai? Su cosa le abbia portate lì, sul perché, sul loro modo di desiderare, di amare, etc. [...].

Quando si parla di amore le cose si complicano sempre, perché per quanto si cerchi di darne una definizione, di trovare una consistenza in questo “essere amate”, ogni donna cercherà di fornire una risposta a partire dalla sua interpretazione dell’amore. Quest’ultima non giunge improvvisamente ma si costruisce nel corso del tempo in rapporto all’Altro familiare, a partire dunque dall’infanzia, fino a trovare la sua manifestazione nell’adolescenza, nell’incontro con l’altro sesso.
Come una ragazza entra nel campo ignoto dell’amore e della sessualità? Lo fa, con l’unica cosa che la orienta: l’interpretazione inconscia del posto che lei ha occupato nel desiderio dell’Altro. Detto in altri termini, la domanda inconscia che la bambina, nel corso del suo sviluppo, rivolge al suo Altro familiare è: come devo essere perché tu mi ami? Come devo essere per non perdere il tuo amore? Quindi, interpreta qual è la posizione che catalizza questo amore e vi si identifica; è a partire da questa che entra nel discorso amoroso. Potremmo dire che la nostra giovane ragazza ha una base di partenza, una traccia, che in psicoanalisi si chiama identificazione. Ma cosa fa sì che questa traccia possa trasformarsi in un marchio rovinoso, che può portare una giovane donna ad accettare di subire ripetute violenze all’interno di un legame definito d’amore? [...].
Armenia, 1895
Uno schiaffo, un pugno, un calcio rompono la legge della parola, che fonda l’umanizzazione della vita implicando l’esperienza del limite e il rispetto dell’alterità.
Il soggetto femminile in quell’istante è un oggetto in balia dell’altro, di un altro che gode malevolmente del suo corpo; ed è lo stesso altro, la stessa persona che, fino ad un istante prima, quel corpo lo aveva adorato, contemplato, eletto a suo oggetto di desiderio. È un’esperienza terribile, ancor più per una ragazza che si è appena affacciata all’amore: eccola confrontata con qualcosa di inspiegabile, di incomprensibile. Cosa ci farà questa ragazza con questo incomprensibile che ha incontrato? Questa è la grande questione che muove l’etica e la clinica della psicoanalisi. Per la psicoanalisi non c’è determinismo diretto, ovvero dato un evento si produce inevitabilmente un effetto. Un cattivo incontro non produce necessariamente un trauma. Ma se il trauma si produce, e questo di solito accade quando il soggetto si sente totalmente lasciato cadere, quando non trova le parole per dire, quando non trova una risposta alla sua domanda muta di comprensione, ciò probabilmente innescherà una fissazione che si manifesterà come ripetizione dello stesso [...].
Quel che, dunque, diviene centrale tra la contingenza dell’evento e la necessità inconscia di riprodurlo, è la mediazione soggettiva. Ovvero come un soggetto, esposto a un cattivo incontro, abbia la possibilità di elaborarlo, di togliersi da quella posizione di oggetto che subisce.

sabato 22 marzo 2014

LA MADRE ERA SEMPRE CERTA di Giancarlo Ricci


La teoria gender ha varie implicazioni, non si tratta solo della questione della sessualità o dell’orientamento sessuale. L’articolo di Annalisa Borghese dal titolo “Donne e maternità, storie e dubbi” uscito su Panorama.it (http://news.panorama.it/cronaca/specchio-venere/Donne-e-maternita-storie-e-dubbi), si interroga se la pratica degli uteri in affitto possa ancora chiamarsi maternità.
 “Nella cosiddetta genitorialità patchwork - scrive Borghese - il figlio diventa un prodotto mercificabile, come tale soggetto a regole di mercato. Si compra e si vende, si esporta e si importa. E quale valore ha? Si può ancora chiamare figlio, cioè “il generato”? In effetti la deriva "gender" smonta il concetto di maternità, la pervertizza a favore di un desiderio cinico, quello di diventare madre ad ogni costo. Il figlio diventa oggetto, oggetto “creato” dalla tecnologia.  Non a caso alcuni incominciano a parlare della “comodità” della clonazione. Ma è tutt’altra cosa. Riuscirà la tecnobiologia a scardinare i principi simbolici della filiazione? Sarà difficile. Eppure la teoria gender va in questa direzione, ossia cercare di scardinare non solo lo statuto dell’identità sessuale dell’uomo e della donna, ma scardinare lo statuto stesso della famiglia intesa come luogo simbolico della generatività tra uomo e donna. Il tema della trasmissione, della memoria, delle generazioni future risulta a rischio, a rischio di estinzione simbolica. E dunque: cosa rimane del figlio? O meglio: cosa rimane al figlio? E’ proprio questa la “deriva inimmaginabile” che la giornalista pone quale punto di partenza nel suo articolo. Seguendo questa deriva risulta che per diventare madre basta pagare: le tariffe, come riferisce la giornalista, variano di paese in paese e da mercato a mercato. 
Una volta vigeva il principio secondo cui “mater semper certa est”. Oggi, epoca che si ritiene civile solo in quanto invasa da un’estesa ipertrofia dei diritti, la maternità “surrogata” rischia di ledere e calpesatre il diritto del “nascituro”. Costui, una volta giunto su questo mondo, si chiederà come vi sia giunto, da quali corpi, da quali cellule, da quali desideri, da quali incontri. Un po’ faticosamente capirà che per lui è stato diverso da altri figli. Si farà ragione di una disuguaglianza incolmabile, forse. Ecco un perverso paradosso dell’ipermodernità: per ottenere l’uguaglianza (diritto di donne alla maternità) si commette una disuguaglianza ancor peggiore (figli nati da uteri affittati). Ma non solo: sotto la bandiera trionfante dell’uguaglianza e dei diritti si commetteranno le più bieche disuguaglianze. Con o senza l’alibi delle biotecnologie.