martedì 26 febbraio 2019

LUCEAFARUL di Tiberio Crivellaro


Poesia e psicoanalisi, binomio essenziale e fecondo, 
fuoco incandescente in cui si tempra la parola e la soggettività. 
. 
Tiberio Crivellaro ha attraversato questo fuoco e la sua poesia, scritta sulla carne, ne testimonia l’avventura.

Pubblichiamo l’Introduzione di Giancarlo Ricci 
al libro di poesie Luceafarul  di Tiberio Crivellaro 
(New Press Edizioni, nella collana "Il Cappelaio Matto" 
curata di Vincenzo Guarracino). 


Introduzione

   
Un viaggio, come ogni vero viaggio, si imbatte nello spaesamento e nella deriva. Infaticabili  “itinerari impossibili” si alternano e si rincorrono.  Nella poesia di Tiberio Crivellaro i paesi e le città, la Romania e Bucarest in particolare,
diventano lo sfondo per altre avventure e per altri viaggi imprevisti e imprevedibili. I vicoli, la polvere, le luci, i respiri.  E anche le donne; una in particolare, silenziosa, che accompagna con la sua discreta presenza la trama sottile ed evanescente degli accadimenti. Ma la passione di fondo rimane quella per la poesia, per il corpo poetico, per la materia delle parole e per l’opacità delle immagini soprattutto quando svaniscono nell’ombra o nell’oblio. Eppure sono immagini che continuano ad apparire luminescenti e a trasmettere impercettibili sensazioni. 
La poesia è forse, anche, arte del tratteggio, scienza dell’accenno fugace ed epifanico, racconto di quanto a stento riusciamo ancora a sopportare. Viaggio nella nostra anima, viaggio nella nostra cittadella diroccata.  Ma poi c’è anche la città vera, Bucarest, occasione di incontri imprevisti, talmente imprevisti da diventare vertigine, come tratteggiano questi versi sfolgoranti: 

   Bucarest, metropoli pusterla,
   cortili  cani  locuste  passi moribondi
   un vecchio balocco cavallino ciorba,
   occhi penombri grevi:
   una vertigine.
   Vecchie  vendono rape e povere cose.
   Una guerra unta annienta la città.
   Tregua è  moscaceca,  moscaromena
   sottomessa nei postriboli da Mac Donald’s.
   Lotta nell’aria, quella dei bimbi
   senza stagione, sporchi piccoli Rom.

Questo viaggio, quest’altra viandanza, è composta da “tre sequenze di passione” e tesse una triplice partitura: Origine di Bucarest, Origine di Theorein, Origine di Fermenti. 
Tre tempi, tre logiche, tre scene con “andate e ritorni” come dichiara Tiberio con parole semplici ed efficaci: “Si tratta di un viaggio (con andate e ritorni - tra il 2000 e 2002) nella vicina Romania.  L'incontro con una donna evidenzia ignoto e stranianza di innamoramento, alcol, delirio si scrivono nella vicenda tra temerarietà e spaesamento. Non c'è familiare nel luogo o nella donna. Qualcosa di onirico svincola dal reale. Prendo a
prestito il titolo "Luceafarul" del celebre Eminescu. Qui egli diventa quasi l'ombra che mi accompagna al viaggio di "frontiera" dove tutto, persone, luoghi e cose sono straniere. 
Momenti di euforia, altri di cupezza. Scrissi quasi tutti i testi di notte, a Bucarest, ospite (quando ci andavo) di un amico italiano, Umberto, in un grande appartamento con molti libri di autori rumeni. Là, per la prima volta conobbi e cominciai a leggere Emile Cioran che ancora oggi mi accompagna silenzioso… Moltissimi di questi libri erano in lingua rumena, pochissimi con traduzione a fronte. Credo appartenessero a un professore universitario rumeno che a periodi affittava l'appartamento. Decisamente, poi, finita la storia, presi a limare testi e alcuni a scartarli. Ho cercato così di rimediare una piccola memoria. Memoria oggi quasi perduta”.
Dunque ci si tuffa nel viaggio come ci si tuffa nella memoria. In un abbandono che porta altrove, in un luogo da cui ci vediamo, noi stessi, collocati altrove. Siamo stati visti laggiù, inerpicati su improbabili crinali o come un puntino perso in una sterminata pianura di luce. O siamo visti ingabbiati tra quattro mura nella notte sprofondata della città straniera. O ancora, accucciati e ammutoliti su un divano polveroso alle luci dell’alba. 
Così, nella poesia di Crivellaro, le immagini scorrono e
corrono a perdifiato, vanno e vengono, si rincorrano, dialogano, pensano, sentenziano. Ma non si ingannano. Rimangono lì, resistono, abbarbicate alla loro arbitraria consonanza. Riverberano evanescenze che raccontano di corpi, di respiri e di agonie. Di improbabili congetture. Di gesti d’amore ultimi, definitivi, come fossero l’ultimo battito d’ali. Come pulsazione perentoria che ferma il tempo, lo cristallizza, lo rende cosa. E al contempo in modo divorante chiede e invoca, come una preghiera incessante, l’esaudirsi di ciò che non potrà mai esaudirsi.

   Sulla rena
   stanco
   mi assopisco
   cullato
   dalle tue pupille
   smeraldine.

Giancarlo Ricci  (marzo 2016)