lunedì 4 marzo 2019

IL TEMPO DELLA LIBERTA' COATTA. Intervista a G. Ricci

"Vivere come automi al tempo della libertà coatta”: 
è il titolo dell'intervista che Caterina Giojelli 
ha fatto a Giancarlo Ricci 
intorno al suo libro, Il tempo della postlibertà

L'intervista è uscita su TEMPI. IT il 28.2.19 
Vai a https://www.tempi.it/vivere-come-automi-al-tempo-della-liberta-coatta/


«Le nuove libertà, proprio come al mercato, 
prima o poi si pagano». 

«La libertà di pensiero ce l’abbiamo. Adesso ci vorrebbe il pensiero». È un aforisma di Karl Kraus, scrittore e noto polemista viennese, e per Giancarlo Ricci è il più efficace emblema della condizione della libertà al tempo dei “mezzi senza fine”: che ne è della libertà di parola e di pensiero, si è chiesto lo psicanalista quando, anno 2016, si è trovato al centro di una vicenda che ha davvero svelato tutte le idiosincrasie e le ossessioni della società dei nuovi diritti e delle infinite possibilità? 
Da questo interrogativo ha preso le mosse un libro strepitoso, Il tempo della postlibertà. Destino e responsabilità in psicoanalisi (192 pagine, Sugarco edizioni), navicella capace di inoltrarsi in mare aperto, spinta dal vento costante dell’indignazione. Ricci, spiega a tempi.it, è ancora in attesa di sapere l’esito del procedimento disciplinare emesso dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia nei suoi confronti tre anni fa quando, ospite della trasmissione televisiva “Dalla vostra parte”, avrebbe fatto affermazioni che secondo i colleghi «possono realizzare discriminazioni a danno di alcuni soggetti», manifestando «un comportamento contrario al decoro, alla dignità e al corretto esercizio della professione». 

Tempi vi aveva già raccontato come erano andate le cose nei cinque minuti in tutto in cui ha potuto parlare, Ricci ha affermato che «la funzione di padre e madre è essenziale e costitutiva alla funzione di crescita del figlio». Apriti cielo. Un
professionista stimato e conosciuto a Milano, dove esercita da oltre quarant’anni, membro analista dell’Associazione lacaniana italiana di psicoanalisi, esperto di Freud, giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Milano, autore di diversi volumi di psicologia e decine di studi specialistici, ha parlato della necessità di mamma e papà, senza usare l’onnicomprensivo e neutrale “genitore”: «In materia di parole l’ideologia va per le spicce. Secondo l’accusa quanto ho detto risulta discriminatorio non solo nei confronti delle coppie omosessuali o delle famiglie arcobaleno ma anche nei confronti di quelle famiglie che si ritrovano senza un padre o senza una madre, sebbene né i primi né i secondi fossero oggetto della mia affermazione. La malafede è evidente, la logica di questo paralogismo è tale che se qualcuno affermasse che “l’uomo per vivere deve mangiare” potrebbe essere accusato di discriminare coloro che non hanno nulla da mangiare – racconta Ricci. L’Ordine degli Psicologi non è un ordine di pensiero: da quando il suo compito è verificare la capacità espressiva e la pertinenza teorica e scientifica dei suoi associati, nonché di esprimere un giudizio in merito? Non solo sono stato trattato come se fossi stato un venditore di pentole capitato per caso in una trasmissione televisiva, ma in questi tre anni mi sono arrivati all’Ordine altri due esposti (con questi sono cinque dal 2009), sottoscritti da simpatizzanti Lgbt ossessionati dalla minuziosa verifica se il sottoscritto pratichi o meno la cosiddetta terapia riparativa (Ricci non la pratica in quanto i riferimenti teorici e clinici sono differenti, ndr). L’ultima udienza sul mio “caso” si è tenuta il 17 gennaio, al termine della quale si sono ritirati per deliberare. Lei li ha più visti?».

Erano i mesi precedenti l’approvazione della legge Cirinnà sulle unioni civili: nel suo libro spiega bene lo stato dell’arte della libertà in questo contesto storico, il suo funzionamento nei media, negli ambiti in cui agisce il pensiero unico, che parla una neolingua e agisce in base a nuove norme e princìpi. 

Lei dice che siamo entrati nell’era della postlibertà. Dove si muore di troppa libertà. Cosa è cambiato?

L’uomo del Novecento si accorgeva di perdere la libertà e combatteva una guerra totale contro questa perdita. Oggi invece il regime neoliberista assicura che siamo talmente liberi da poter fare a meno della libertà, promette strani surrogati sempre nuovi. Questa offerta di nuove libertà all inclusive, infatti, conforta il cittadino che crede di essere libero, crede che la libertà sia disponibile come una merce, crede di poter fare a meno di ogni responsabilità. E così facendo, anche il proprio destino viene delegato al nuovo concetto di governance, entità impersonale e irraggiungibile. Così è sempre più difficile sottrarsi a questo carnevale permanente di libertà pluralizzate, assegnate quasi a titolo d’obbligo: una libertà coatta, progettata come diritto al godimento di un desiderio individuale che nello storytelling neoliberista prometterebbe cinicamente la felicità. Questo ha delle conseguenze anche a livello psichico: pensare alla libertà nei termini di un diritto da esigere rischia di ridurre gli altri, la collettività, il bene comune, ad elementi che ostacolano l’individualismo e minacciano la propria felicità narcisistica.

Perché parla di carnevale delle libertà? 

Perché se svanisce l’istanza di responsabilità e di destino come contenuti imprescindibili della libertà, tutto diventa una finzione: pubblico e privato si rovesciano e si confondono, reale e virtuale si compattano. In questo 
senso l’omosessualismo, i temi della “rivoluzione gender”, del diritto al riconoscimento del matrimonio omosessuale, della richiesta dell’adozione e della possibilità di poter avere un figlio tramite l’utero in affitto, rappresentano oggi gli emblemi di nuove libertà. Si basano tuttavia su presupposti e logiche un po’ perverse: la logica delle cose e della “natura” vengono rovesciate sul presupposto che un desiderio individualistico debba essere riconosciuto da un dispositivo giuridico che lo renda possibile. Lungo questa via la vita psichica di un soggetto si espande su un piano sociale che gli consente di immaginare di essere libero, di scegliere i propri diritti, di utilizzare quelle “nuove libertà” immesse sul mercato dalle biotecnologie che promettono di superare i limiti della natura. Ma le nuove libertà, proprio come al mercato, prima o poi si pagano. Ed è il destino di una civiltà a pagarle, in nome di una sorta di anonimato della responsabilità. Che prezzo ha la libertà che ci viene offerta abbondantemente? Ma soprattutto, quale libertà riceviamo? 

Lei scrive infatti che c’è poco pensiero in questa libertà che assomiglia a una botte in cui rifugiarsi e in cui vivere. Parla di libertà come comfort e allo stesso tempo come imperativo: ciascuno si prenda la propria. È una libertà condizionata?

Sì, ma le anime belle fanno finta di non accorgersene. I nostri tempi non procedono più nel concedere o togliere la libertà, ma, in modo sempre più sofisticato, nel concederla ancor prima che venga domandata. Spossessandola pertanto di qualsiasi desiderio. Il modo migliore per neutralizzare ogni libertà è infatti quello di farla implodere al suo interno: permettere tutte le libertà per livellare ogni possibile libertà, neutralizzarla. Annichilirla. Sequestrare il soggetto pretendendo di sapere  quale libertà richiede. È un principio decisamente maternalistico. Sarà il principio dell’egualitarismo, di un nuovo egualitarismo, a distribuire le stesse libertà a ciascuno. Tutti saranno uguali perché tutti godono delle stesse “nuove” libertà. 

Facciamo degli esempi...

Le differenze di pensiero dovrebbero produrre altro pensiero, invece, secondo il pensiero unico, questo è pericoloso: meglio gli stereotipi, il conformismo. Per il politicamente
corretto ogni opinione dovrebbe essere esente, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale, di disabilità fisiche o psichiche… la  lista potrebbe continuare all’infinito. Paradosso vuole che questa logica enfatizzi il pregiudizio per relativizzare, ostacolare e inibire, il giudizio stesso. È come se fosse neutralizzata la responsabilità, come se la burocrazia entrasse nel linguaggio. E qui torniamo al carnevale: riprendendo un recente libro di Eugenio Capozzi, Politicamente corretto, possiamo dire che l’omologazione è come un bulldozer che maciulla tutto ciò che incontra sul suo cammino: lingue, culture, consuetudini millenarie. Il nostro modo di pensare deve adeguarsi al principio della “pari opportunità”, come se i pro e i contro individuati dalla nostra ragione potessero magicamente equipararsi. Pertanto ogni verità, seppur soggettiva, verrebbe annullata da una contro-verità.  Ma se una verità è uguale a un’altra, tutto si azzera, non possiamo più giudicare. Ecco il carnevale delle libertà: rinunciate al giudizio o all’istanza di verità, tanto è inutile, vincerà la finzione e il gioco trasgressivo di una virtualità che pretende di diventare legittima. Penso che gli effetti sociali saranno pesanti.

Contro questa strana ingegneria sociale lei scrive che sarebbe importante ripristinare un concetto di discriminazione che sia degno di questa parola.

Oggi per meglio gestire le libertà altrui si è aperta la caccia alle discriminazioni. L’ipermodernità vuole paludarsi di egualitarismo. Nel libro sostengo che discriminare significa innanzi tutto discernere, termine che si situa agli antipodi del pregiudizio e che riguarda semmai il giudizio, sia esso intellettuale, etico o morale, che è altra cosa dalla condanna o dalla sentenza. Di sicuro se rinunciamo al giudizio la ragione collassa. Se per esempio un soggetto non riesce a sbrogliare la matassa della propria vita psichica, matassa fatta di eventi, emozioni, pensieri, fantasie, essa si ingarbuglierà sempre più. La psicoanalisi suggerisce che in gran parte possiamo ritessere il destino della nostra vita e assumerci le proprie responsabilità, altrimenti il rischio è di credere a un destino già scritto. Tale fatalismo, questa volta davvero,  funzionerebbe come una discriminazione assoluta.

Ma avremo pure la libertà di pensarla in modo diverso e di prendere le distanze da questo modo di progettare la nostra libertà?

Le pattumiere del consumismo sono colme di libertà usa e getta, ma l’inconscio, in definitiva la nostra memoria, non
perdona, restituisce quello che abbiamo buttato o lasciato in sospeso. In alcune pagine del libro evidenzio la doppia etimologia del termine libertà. Semplificando: da una parte la radice latina liber, dall’altra il germanico frei, da cui free in inglese. Le differenze sono significative: liber evoca la filiazione, la collettività, il bene comune; frei si muove invece nella direzione di un soggettivismo che promuoverà, nella modernità, il concetto di autodeterminazione. Che cos’è l’autodeterminazione? Il mito dell’uomo che si fa da sé, che si ritiene esente da ogni debito simbolico e quindi da ogni responsabilità verso gli altri. È un abbaglio. Nell’ipermodernità l’autodeterminazione indica il trionfo dell’uomo che si crede libero, portatore di una libertà ritenuta “eroica” nella supposizione di averla fondata da sé. Che vorrebbe, in definitiva sconfiggere le leggi della natura utilizzando a modo suo gli “effetti speciali” della tecnologia.

Qual è la posta in gioco di questo lavoro?

Far sì che la libertà sia “bene detta”, elaborata e formulata cioè attraverso quelle parole autentiche con cui il paziente progetta il proprio bene. Il destino di ciascuno non è già scritto ma può essere ritessuto da quello che chiamo un “lavoro di libertà”: libertà pensata e progettata in base a nuovi orizzonti. Ogni storia è il risultato denso e complesso di infinite storie. Il lavoro psicoanalitico punta a ritrovare il desiderio di progettare una libertà altra che ha il sapore di una conquista perenne. Invece, in questo tempo di libertà “male dette”, di rimasugli di ideologie che presumono di gestire un’ortopedia del pensiero mediante il politicamente corretto, viene da parafrasare l’aforisma di Kraus: «La libertà di pensiero c’è l’abbiamo, ora ci vorrebbe urgentemente un pensiero sulla libertà».