Segnaliamo l'uscita del libro di DAVIDE BERSAN
Figure del padre in Ozu
(Polimnia Digital Editions, 2020)
Figure del padre in Ozu
(Polimnia Digital Editions, 2020)
La filmografia completa del celebre regista giapponese viene esplorata dagli esordi a partire dalla posizione poliedrica che il padre assume in ciascun film. Il libro costituisce anche un attraversamento delle tematiche tipiche
di questo grande regista.
di questo grande regista.
"È all’interno di tale universo artistico - scrive Bersan nell'Introduzione - che ho potuto man mano ritrovare e ripercorrere una sorta di “alfabeto dell’umano” le cui prime
lettere sono “padre” e “figlio” ma anche “figlia”, “madre”, “fratelli”, “sorelle” e così via". In tal senso questa carrellata di figure, di statuti e di interiorità pare raccontino, partendo da un altrove, l'attualità dei nostri tempi.
Il libro è disponibile presso Amazon o altri stores
in vari formati digitali.
in vari formati digitali.
Davide Bersan è nato a Verona e oggi lavora a Milano. Laureato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, da tempo lavora nel campo delle cure psichiatriche. Ha seguito una formazione di counseling (sistemico e psicodinamico). Negli ultimi anni i suoi interessi si sono rivolti anche all’approfondimento di argomenti di psicanalisi e di cinema.
Gestisce un blog: https://blog.libero.it/wp/cinemadiozu/
Gestisce un blog: https://blog.libero.it/wp/cinemadiozu/
Dall'Introduzione
L’idea di scrivere questo libro mi è venuta dopo aver scoperto quasi per caso il cinema di Yasujiro Ozu. Pur amando il cinema sin dall’infanzia, le mie conoscenze della settima arte lambivano occasionalmente la cinematografia orientale. La mia frequentazione delle sale ha sempre alternato periodi di assiduità e di latitanza, tuttavia mi concedevo di tanto in tanto la visione di qualche film d’autore che cercavo con cura selettiva in base agli interessi del momento. Circa sei anni fa mi sono imbattuto, lungo le mie consuete ricerche tra gli scaffali pieni di dvd della biblioteca del mio quartiere, prima nella sezione di cinema dell’Estremo Oriente e poi nel film di Ozu “C’era un padre” (Chiki Ariki). Cercavo in realtà qualcosa che trattasse della relazione padre-figlio. In quel momento stavo leggendo diversi libri su questa tematica e desideravo affrontarla da più prospettive, anche quella riguardante il discorso cinematografico.
L’impressione che ho provato dopo la visione di quel film di
Ozu del 1942 è stata forte e profonda, ho sentito molta commozione come se quella storia non narrasse solo di un padre e un figlio di un paese asiatico lontanissimo dall’Italia e di molti anni fa, ma come se riguardasse in fin dei conti anche me, così come ogni figlio e ogni padre in tutto il mondo. Erano effettivamente, come poi in seguito ho scoperto, impressioni simili a quelle che anche altri avevano avuto a contatto con le opere di Ozu, come ad esempio Wim Wenders che nel suo lungometraggio “Yokyo-ga” (1983) ne offre un’esplicita testimonianza.
In esso Wenders ripercorre a vent’anni dalla scomparsa del regista giapponese, i luoghi rappresentati nei suoi film per cercarvi, forse invano, ciò che vi rimane di Ozu e del suo mondo poetico: «Per quanto siano tipicamente giapponesi questi film sono allo stesso tempo universali. Vi ho riconosciuto tutte le famiglie del mondo intero, anche i miei genitori, mio fratello e me stesso. Secondo me mai prima di allora e neanche dopo il cinema è stato così vicino alla sua essenza e alla sua funzione: offrire un’immagine dell’uomo nel nostro secolo, un’immagine utile, vera e valida in cui ci si può riconoscere e soprattutto da cui si può apprendere qualcosa di sé» (dalla voce narrante di Wenders all’inizio del film). In base a questa testimonianza era come accorgersi che la specificità della storia raccontata non ne minava il suo significato universale o forse proprio per la sua particolare collocazione storica faceva risuonare in un modo del tutto unico e direi anche più intenso, degli echi spesso sepolti nell’animo umano.
Ozu del 1942 è stata forte e profonda, ho sentito molta commozione come se quella storia non narrasse solo di un padre e un figlio di un paese asiatico lontanissimo dall’Italia e di molti anni fa, ma come se riguardasse in fin dei conti anche me, così come ogni figlio e ogni padre in tutto il mondo. Erano effettivamente, come poi in seguito ho scoperto, impressioni simili a quelle che anche altri avevano avuto a contatto con le opere di Ozu, come ad esempio Wim Wenders che nel suo lungometraggio “Yokyo-ga” (1983) ne offre un’esplicita testimonianza.
In esso Wenders ripercorre a vent’anni dalla scomparsa del regista giapponese, i luoghi rappresentati nei suoi film per cercarvi, forse invano, ciò che vi rimane di Ozu e del suo mondo poetico: «Per quanto siano tipicamente giapponesi questi film sono allo stesso tempo universali. Vi ho riconosciuto tutte le famiglie del mondo intero, anche i miei genitori, mio fratello e me stesso. Secondo me mai prima di allora e neanche dopo il cinema è stato così vicino alla sua essenza e alla sua funzione: offrire un’immagine dell’uomo nel nostro secolo, un’immagine utile, vera e valida in cui ci si può riconoscere e soprattutto da cui si può apprendere qualcosa di sé» (dalla voce narrante di Wenders all’inizio del film). In base a questa testimonianza era come accorgersi che la specificità della storia raccontata non ne minava il suo significato universale o forse proprio per la sua particolare collocazione storica faceva risuonare in un modo del tutto unico e direi anche più intenso, degli echi spesso sepolti nell’animo umano.
Sono passati però alcuni mesi prima che sentissi il desiderio di rivedere Chiki Ariki e poi anche le altre opere di Ozu. La mia scoperta non si era infatti esaurita in quel film perché man mano che vedevo altre sue pellicole mi rendevo conto di quanto ognuna rappresentasse un singolo tassello di una costruzione più grande, del tutto coerente e coesa al suo interno. In essa i temi, le immagini, i valori, gli stili, le tecniche convergevano in un unico progetto artistico, in una stessa visione unitaria del mondo e dell’umano, in un peculiare universo contenutistico e stilistico che trovava una felice e alta espressione nell’arte del cinema.
È all’interno di tale universo artistico che ho potuto man mano ritrova- re e ripercorrere una sorta di “alfabeto dell’umano” le cui prime lettere sono “padre” e “figlio” ma anche “figlia”, “madre”, “fratelli”, “sorelle” e così via. E le ritrovavo in tutta la loro freschezza sorgiva e nella loro densità semantica che solo il filtro di una cultura “altra”, lontana da quella occidentale anche se non aliena da contaminazioni, poteva restituircele da una tale prospettiva inedita e per questo così carica di preziose suggestioni. Era come riscoprire queste stesse parole, mediate da immagini dal potente impatto visivo e sentirle risuonare di echi antichi ma anche nuovi in un linguaggio che, se pur connotato culturalmente, sapeva farsi intendere da ognuno.
“C’era un padre” è stata effettivamente la porta che mi ha permesso di accedere a quel mondo che era costituito essenzialmente dalla filmografia del regista. Il secondo passaggio è stato per me quello di approfondire la co- noscenza della cultura e della storia del Giappone per trovare la corretta contestualizzazione dell’opera di Ozu.
Non è difficile notare che l’universo artistico di Ozu si focalizza sulla realtà familiare, seguita passo dopo passo, registrata, si potrebbe dire, nei suoi mutamenti sempre più profondi per più di tre decenni, ossia dalla fine degli anni venti ai primi anni sessanta, attraverso momenti salienti della storia del Paese del Sol Levante.
Nel 2015 ho iniziato a promuovere degli incontri impostati
come dei laboratori (o conferenze) sul cinema di Ozu. Non propriamente quindi un cineforum: i film, all’inizio, venivano introdotti da alcune note e alla fine commentati liberamente dal pubblico. Inoltre durante la visione venivano proposte alcune pause per introdurre chiavi di lettura e focalizzazioni su determinate particolarità stilistiche o altri tipi di rilievi. Tali momenti offrivano alle persone presenti lo spazio per eventuali osservazioni in itinere. Di tali notazioni, a vari livelli, a volte vi può essere eco nei capitoli, in particolare nel secondo e nel terzo. Da allora ho organizzato numerosi altri incontri in cui sono stati proiettati, sempre con le stesse modalità, almeno una decina di film del regista, oltre che di altri autori per lo più giapponesi. Incontri sempre abbastanza frequentati che si sono svolti in gran parte presso la biblioteca comunale del quartiere milanese di Crescenzago e alcune volte presso l’associazione culturale che fa capo alla Villa Pallavicini di Milano.
come dei laboratori (o conferenze) sul cinema di Ozu. Non propriamente quindi un cineforum: i film, all’inizio, venivano introdotti da alcune note e alla fine commentati liberamente dal pubblico. Inoltre durante la visione venivano proposte alcune pause per introdurre chiavi di lettura e focalizzazioni su determinate particolarità stilistiche o altri tipi di rilievi. Tali momenti offrivano alle persone presenti lo spazio per eventuali osservazioni in itinere. Di tali notazioni, a vari livelli, a volte vi può essere eco nei capitoli, in particolare nel secondo e nel terzo. Da allora ho organizzato numerosi altri incontri in cui sono stati proiettati, sempre con le stesse modalità, almeno una decina di film del regista, oltre che di altri autori per lo più giapponesi. Incontri sempre abbastanza frequentati che si sono svolti in gran parte presso la biblioteca comunale del quartiere milanese di Crescenzago e alcune volte presso l’associazione culturale che fa capo alla Villa Pallavicini di Milano.
Se la realtà familiare è il focus narrativo su cui il regista ha elaborato le sue numerose storie, non senza una propria evoluzione stilistica e contenutistica avvenuta nel corso degli anni, la figura del padre all’interno della famiglia è quanto mai centrale in quasi tutti i suoi film. Centrale anche quando, soprattutto nel dopoguerra, ne registra la crisi di ruolo, e lo sfaldamento degli equilibri sia generazionali che all’interno del nucleo familiare rispetto alle tradizioni consolidate. Con quest’opera ho cercato appunto di considerare con più attenzione il modo in cui è raffigurata l’immagine del padre nei film di Ozu.
Pur non essendo un’opera sistematica, le riflessioni sono state ordinate partendo dai film più vecchi del regista, quelli del periodo del muto per intenderci, per poi attraversare i film del periodo bellico e proseguire con quelli usciti nei primi anni del dopo-guerra per approdare infine ai più recenti dopo la svolta del colore nel 1958 con “Fiori di equinozio”. Tutti i periodi della filmografia ozuiana sono stati presi in considerazione e direi la maggior parte dei suoi film, almeno di quelli reperibili. Se qualche film è stato trascurato, come ad esempio “La donna della retata” o “Una donna di Tokyo”, è per il semplice motivo che non vi ho trovato rimandi significativi alla figura del padre. Di altri come “Sorelle Munekata” o “Erbe fluttuanti” pur avendoli ben presenti non mi è stato possibile dedicarvi un paragrafo. Il tema o focus narrativo del libro è infatti il padre, la sua figura, la sua immagine, il suo porsi come altro polo di un figlio o di una figlia o di più figli, così come Ozu la raffigura e rappresenta, lasciando più spazio alle impressioni e alle risonanze interiori rispetto ad una vera e propria meta-riflessione.
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