Dalla rivista di psicanalisi LETTERa
(n. 3, Joyce. Sinthomo, arte, follia, et al./ Edizioni, Milano 2013) pubblichiamo la recensione di G. Ricci al libro di
GIOVANNI SIAS, Appunti per una nuova epistemologia. Psicanalisi, scienza, verità (ZonaFranca, 2012).
(n. 3, Joyce. Sinthomo, arte, follia, et al./ Edizioni, Milano 2013) pubblichiamo la recensione di G. Ricci al libro di
GIOVANNI SIAS, Appunti per una nuova epistemologia. Psicanalisi, scienza, verità (ZonaFranca, 2012).
Ci sono eserghi che introducono o ispirano il lavoro di un autore. In questo libro, i due eserghi che Giovanni Sias pone in apertura alla sua ricerca sono molto di più: un programma di ricerca e una precisa direzione indicata dall’ago di una bussola.
Ecco il primo esergo, di Lacan (da Funzione e campo della parola): “Se la psicoanalisi può diventare una scienza - dato che non lo è ancora - e se non deve degenerare nella sua tecnica - e forse è cosa già fatta - dobbiamo ritrovare il senso della sua esperienza”. La frase - siamo all’inizio degli anni ’50 - luccica ancora oggi, dopo più di mezzo secolo, trasmettendo alcuni interrogativi nell’opaca indifferenza dei nostri tempi.
E' una frase che interroga la contemporaneità, che mette il dito nella piaga in quei discorsi (mediatici, culturali, sociologici, universitari) ormai colonizzati da uno scientismo trionfante, dove il riferimento alla tecnica decide il vero e il falso, l’utile e il superfluo, il profitto e il dispendio. Siamo nell’era della misurabilità.
E' una frase che interroga la contemporaneità, che mette il dito nella piaga in quei discorsi (mediatici, culturali, sociologici, universitari) ormai colonizzati da uno scientismo trionfante, dove il riferimento alla tecnica decide il vero e il falso, l’utile e il superfluo, il profitto e il dispendio. Siamo nell’era della misurabilità.
In questi Appunti per una nuova epistemologia (sottotitolo) il cui titolo effettivo, La psicanalisi, la scienza, la verità, vuole mantenere la posta in gioco di una scommessa alta, Sias ripercorre i fili implicati nella frase di Lacan, esplorandone trama e ordito. I nodi del dibattito sono cruciali: la psicanalisi non è ancora una scienza; può diventarla se ritrova il senso della sua esperienza; ha già imboccato (ma erano appena gli anni ’50) la rovinosa via del tecnicismo. L’autore esplora gli orizzonti che queste tre considerazioni dischiudono. E si premura di sottolineare, affrontando man mano varie tematiche, che simile respiro è ben differente da quella severità (così utilitariamente pragmaticista) con cui molta epistemologia si è precipitata a rispondere in modo binaristico se la psicanalisi fosse scienza o no. Dibattiti, polemiche, accuse tra i contendenti. Pochi ponevano la questione forse essenziale: che cosa si intende per scienza? Domanda inattuale. Infatti l’ipermodernità si è impadronita in modo monopolistico di questa parola magica, riferendosi unicamente al tempo fondativo di Galileo, Newton, Copernico. No, ci sono altre vie che, passando dall’imprescindibile connessione tra soggetto e verità, conducono ad altri approcci di conoscenza del mondo.
Che cosa si intende per scienza? Domanda che oggi sembra taciuta, esiliata, tanto la parola scienza si fa strada a colpi di effetti speciali imponendo i suoi trucchi. Nulla di strano se può accadere che a colpi di “nuove” tecnoscienze e “nuove” neuroscienze, la psicanalisi venga considerata dalla “scienza forte” ormai uno scomodo reperto museale.
Che cosa si intende per scienza? Domanda che oggi sembra taciuta, esiliata, tanto la parola scienza si fa strada a colpi di effetti speciali imponendo i suoi trucchi. Nulla di strano se può accadere che a colpi di “nuove” tecnoscienze e “nuove” neuroscienze, la psicanalisi venga considerata dalla “scienza forte” ormai uno scomodo reperto museale.
Del resto di scienza ciascuno ne parla e continua a parlarne, ignorando spesso il funzionamento ideologico del suo discorso (discorso del padrone) e soprattutto ignorando il funzionamento dei laboratori di ricerca, la logica dei finanziamenti che sostengono o aboliscono programmi di ricerca, gli orientamenti relativi alla pubblicazione presso riviste “prestigiose” che sanciscono la validità di una teoria. Pierre Bourdieu ha descrittto con rigore questa logica quando annotava per esempio che “l’universo della scienza è un mondo che riesce a imporre universalmente la credenza delle sue finzioni”. “Ritrovare il senso dell’esperienza psicoanalitica”, ammoniva Lacan nell’esergo in questione. Evidentemente la psicoanalisi di quegli anni - appena un decennio dopo sarebbe giunta la “scomunica” anglosassone - era agli occhi di Lacan già abbondantemente “degenerata nella sua tecnica”, e quindi ben lontana dal poter affrontare un tema così complesso come quello della scientificità. Figuriamoci oggi, vien da pensare.
Tutto ciò porta a una radicale interrogazione che Sias non smette, in queste pagine, di riformulare attraverso varie coniugazioni: quale psicoanalisi? Di quale psicoanalisi stiamo parlando? Dimenticavo, a tal proposito, il secondo esergo, dopo quello di Lacan. È una frase di Kafka: “Da un certo punto in là non c’è più ritorno. È questo il punto da raggiungere”. Dunque il tema della scientificità della psicanalisi esige un punto di non ritorno che interroga radicalmente la sua esperienza.
Le pagine di questo libro lo dicono: il punto di non ritorno coincide con lo statuto etico della psicoanalisi, condizione da cui discende la portata scientifica del suo atto, che si confronta incessantemente con un’altra razionalità. “La grande resistenza che la psicanalisi incontrava (e ancora oggi incontra) è, io credo, da ascriversi al fatto che essa si contrapponeva (e si contrappone) alla razionalità scientifica e all’ideologia scientista senza essere né intuizionista né irrazionalista, ma in quanto propositiva di un’altra razionalità con cui tutta la conoscenza avrebbe dovuto (e dovrebbe) fare i conti”.
Le pagine di questo libro lo dicono: il punto di non ritorno coincide con lo statuto etico della psicoanalisi, condizione da cui discende la portata scientifica del suo atto, che si confronta incessantemente con un’altra razionalità. “La grande resistenza che la psicanalisi incontrava (e ancora oggi incontra) è, io credo, da ascriversi al fatto che essa si contrapponeva (e si contrappone) alla razionalità scientifica e all’ideologia scientista senza essere né intuizionista né irrazionalista, ma in quanto propositiva di un’altra razionalità con cui tutta la conoscenza avrebbe dovuto (e dovrebbe) fare i conti”.
Originali in queste pagine i riferimenti ad alcuni studiosi italiani - spesso scrittori, poeti e filosofi come E. Gadda, M. Lavagetto, Machiavelli, G. E. Pontiggia, M. Ranchetti, U. Spirito - di sicuro poco “accreditati” in materia di scienza. Anche questa è la testimonianza di una forma di laicità.
In tal senso vi sono pagine abbastanza perentorie. E giustamente. Per esempio la notazione secondo cui gran parte della prima generazione di psicanalisti, a partire dagli anni ‘20 e poi soprattutto dopo gli anni ‘50, si sia orientata prevalentemente verso una dimensione “terapeutica” che, assumendo alcuni principii psichiatrici, rinunciava allo spirito inventivo e pioneristico che aveva guidato l’avventura freudiana. Avventura, occorre ricordare, che fin dall’inizio aveva dovuto farsi largo denunciando “l’oscurantismo scientifico degli eruditi” e “l’autorità della scienza esatta”. Le critiche verso la psicanalisi nei decenni successivi si sono radicalizzate, “soprattutto con le modificazioni della modernità avvenute nel Dopoguerra, quando il pensiero scientifico non era più rappresentato dalla meccanica e dalla fisica in generale, ma dalla medicina e dove tutte le altre scienze acquistavano valore solo se considerate di ausilio alla medicina”.
In tal senso vi sono pagine abbastanza perentorie. E giustamente. Per esempio la notazione secondo cui gran parte della prima generazione di psicanalisti, a partire dagli anni ‘20 e poi soprattutto dopo gli anni ‘50, si sia orientata prevalentemente verso una dimensione “terapeutica” che, assumendo alcuni principii psichiatrici, rinunciava allo spirito inventivo e pioneristico che aveva guidato l’avventura freudiana. Avventura, occorre ricordare, che fin dall’inizio aveva dovuto farsi largo denunciando “l’oscurantismo scientifico degli eruditi” e “l’autorità della scienza esatta”. Le critiche verso la psicanalisi nei decenni successivi si sono radicalizzate, “soprattutto con le modificazioni della modernità avvenute nel Dopoguerra, quando il pensiero scientifico non era più rappresentato dalla meccanica e dalla fisica in generale, ma dalla medicina e dove tutte le altre scienze acquistavano valore solo se considerate di ausilio alla medicina”.
La parabola di Lacan resta esemplare: dalla psichiatria alla psicanalisi, la rilettura di Freud, la “scomunica”, la fondazione dell’Ècole e poi, potremmo dire, l’invenzione di un’altra psicoanalisi (quanto meno rispetto a quella esistente al suo tempo). Lo spostamento da lui operato, privilegiando il nodo tra scienza e verità, certo risultava parecchio stretto ai criteri epistemologici dell’epoca.
“Si può agevolmente intendere - conclude Sias - come l’epistemologia non sia immeditamente applicabile alla psicanalisi. Se si intende per epistemologia quel “parlare sulla scienza”, nel tentativo di definire e separare ciò che è scienza e ciò che non lo è, a partire dai contenuti stessi di una pratica scientifica e dai suoi dati sperimentali (verificabili, falsificabili, osservabili, riproducibili, e così via), occorre registare, per la psicanalisi, la sua totale estranietà a un simile modo di intendere il processo scientifico”.
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