Pubblichiamo alcuni passi tratti dal paragrafo "La tenuta dei ponti" del libro L'ATTO E LA STORIA di Giancarlo Ricci.
La “cosa pubblica” pare proprio non essere più il luogo di una progettualità ma il mercato della spartizione, della connivenza, dello smercio di superstizioni traballanti, di scambi di omertà e alibi. Eppure la collettività, la cosa pubblica, il sociale, la comunità, il gruppo, dovrebbero rappresentare il punto più alto della civiltà, il suo nucleo più laicamente ed eticamente forte.
L’ascolto dell’inconscio insegna. Insegna che se colui che parla non si attiene alla propria parola e alla propria storia, al proprio sentire e al corso dei propri pensieri, le cose si complicano, paralizzano, assumono un peso insopportabile, si mostrano come spettri o chimere indefinibili.
Occorre che le cose, per quanto è concesso all’umano, siano nominate con il loro nome, altrimenti si fa dell’ottundimento un criterio di presunzione e di permalosità, modi sbrigativi con cui viene nientificato l’Altro e negato l’inconscio. Occuparsi, per lo psicanalista, del disagio della civiltà nelle sue forme attuali costituisce l’altra faccia della clinica: un giro apparentemente più lungo ma che permette di arrivare al cuore delle questioni, di ogni questione. E ciascuna questione è soggettiva e singolare proprio perché chiama in causa una particolare vicenda sociale. L’istituzionale e il soggettivo sono indissolubilmente legati [...].
La degradazione della “cosa pubblica” produce una società che si muove come i ciechi di Bruegel: ciascuno tiene la mano sulla spalla dell’altro, ma nessuno sa dove si stia effettivamente andando. A ben pensarci non è senza enigma questa rappresentazione del sintomo (nell’accezione psicanalitica) che, strutturandosi come “formazione di compromesso”, insistentemente ostacola, osteggia, impedisce. Di sicuro introduce un’economia mortifera di perdita, di dissipazione e di smarrimento.
Occorre che le cose, per quanto è concesso all’umano, siano nominate con il loro nome, altrimenti si fa dell’ottundimento un criterio di presunzione e di permalosità, modi sbrigativi con cui viene nientificato l’Altro e negato l’inconscio. Occuparsi, per lo psicanalista, del disagio della civiltà nelle sue forme attuali costituisce l’altra faccia della clinica: un giro apparentemente più lungo ma che permette di arrivare al cuore delle questioni, di ogni questione. E ciascuna questione è soggettiva e singolare proprio perché chiama in causa una particolare vicenda sociale. L’istituzionale e il soggettivo sono indissolubilmente legati [...].
La degradazione della “cosa pubblica” produce una società che si muove come i ciechi di Bruegel: ciascuno tiene la mano sulla spalla dell’altro, ma nessuno sa dove si stia effettivamente andando. A ben pensarci non è senza enigma questa rappresentazione del sintomo (nell’accezione psicanalitica) che, strutturandosi come “formazione di compromesso”, insistentemente ostacola, osteggia, impedisce. Di sicuro introduce un’economia mortifera di perdita, di dissipazione e di smarrimento.
«Il sintomo», scrive Freud, «somiglia, nelle parole del Vangelo, a un vecchio otre riempito di vino nuovo». Infatti, come racconta la parabola, se si mette il vino nuovo negli otri vecchi, perdiamo sia il vino sia gli otri. Se le categorie del Novecento hanno proseguito fino a oggi è proprio perché la contemporaneità sembra abbia preferito utilizzare lo stesso abito del Novecento aggiungendo nuovi rattoppi. Dinanzi alla ripetizione di una serie di impasse che attengono l’eventualità stessa di progettare in termini differenti un possibile futuro, nessuno osa versare vino nuovo in otri nuovi. Cosicché oggi tutti lo constatano: stiamo perdendo sia il vino sia gli otri. Doppia perdita. In questo raddoppiamento che si appresta a moltiplicarsi a dismisura, addirittura minacciando l’esistenza stessa dell’umano, riconosciamo la vertigine della contemporaneità.
Giancarlo Ricci, L'atto la storia, Ed. San Paolo.
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