sabato 26 ottobre 2013

DEPRESSIONE E INDIFFERENZA di Giancarlo Ricci


Pubblichiamo una pagina dal paragrafo "Elogio dell'impotenza" del libro "L'atto la storia" di G. Ricci. 
Il 7 novembre alle 18, presso la Galleria San Fedele 
(via Hoepli b, Milano) si tiene un dibattito sul libro con gli interventi di Roberto Mussapi e Silvano Petrosino.


Come psicanalista penso non sia un caso che le statistiche considerino la depressione come l’epidemia più diffusa nella contemporaneità. Tuttavia le statistiche non dicono che, per uno strano effetto di moltiplicazione, la depressione è il “disturbo” più celebrato, più favorito, più incoraggiato dalla società. Nulla di più rassicurante del silenzio della depressione: l’evitarsi, il tenersi lontano, l’isolamento, la rinuncia alla parola, alla memoria, alle relazioni, al sogno.

In effetti questo silenziare la soggettività, parallelo a un certo soffocamento della corporeità, fa comodo a tutti. È un silenzio che produce silenzio. Che riproduce un mettere a tacere. Non fa spettacolo, non fa rumore, non chiama in causa niente e nessuno. È un silenzio neutro che si spegne in se stesso fino a tacere del tutto. 
In queste tematiche la semplice “frasetta” «Ama il prossimo tuo come te stesso» galleggia con tutta la sua potenza esplosiva. La vera incandescenza, quella che può causare l’esplosione, risiede nella locuzione «come te stesso», dove il “te stesso” non è altro che lo sguardo che rivolgiamo dentro di noi. È uno sguardo che talvolta incontra l’orrore del nostro stesso volto che stentiamo a riconoscere nello specchio. E questo orrore dovrebbe costituire la misura di “come” ci accostiamo al nostro prossimo? Povero nostro prossimo, gli conviene fuggire! Del resto lo constatiamo ogni giorno, quando coloro che praticano il più convinto narcinismo (narcisismo con cinismo) giustificano la loro rassegnazione: non sono certo io a essere razzista, semplicemente è l’Altro a essere così molestamente diverso da me!
Ma l’indignazione è un’altra e riguarda il fatto che, nella società dell’indifferenza, il dolore si dilegua nel sordo grigiore della quotidianità, si mescola all’inquietudine, non trova le parole per dirsi, si perde nell’anonimato e nell’indistinto della moltitudine. La solitudine dilaga poiché non è facile trovare un “proprio simile” in grado di reggere e accogliere qualcosa di così smisurato. Sembrano sparire tutti. E allora sopravanza l’ombra dell’angoscia.

L’indignazione è pensare che possa esistere un essere umano al quale sia stata tolta la possibilità di dire il proprio dolore, raccontarlo. Dirlo a chi? A qualcuno. A qualcuno che sappia ascoltarlo. Che sappia coglierne le pieghe senza celebrarlo, senza autenticarlo, senza garantirlo come condizione necessaria, che sappia trovare un modo per staccare quel dolore dalla necessità di un destino già scritto. Il non trovare qualcuno a cui poter raccontare il proprio dolore: non è questa l’umiliazione più forte che un essere umano possa sopportare? Non è questa la ferita che irrimediabilmente si riapre in ciascuno di noi, quando ciò accade?

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