Alcuni brani dell'intervento di Silvano Petrosino in occasione della presentazione del libro L'atto la storia, di G. Ricci
(Galleria San Fedele, Milano, 7.11.13)
(Galleria San Fedele, Milano, 7.11.13)
Sono rimasto colpito da questo libro; mi sembra un contributo che porta alla riflessione sulla vicenda del papa ma anche, in generale, sul nostro tempo. Mi sono soffermato sul concetto di atto che nell’interpretazione che ne dà l’autore viene presentato come atto psicoanalitico. Riprendo solo due righe dal libro: “Quello di Ratzinger - scrive Ricci - è stato un atto analitico”. E prosegue: “L’atto in psicanalisi ha una particolare rilevanza: esso effettua uno spalancamento che consente a un frammento di verità di prendere voce, per esempio nel lapsus, nel sogno, nella dimenticanza.
L’atto comporta l’emergenza di una verità rimasta latente, dà voce a pensieri inconsci che erano silenti”. L’idea da cui prende le mosse è che le dimissioni di Benedetto XVI costituiscano un atto di questo tipo. Ora, rispetto a che cosa? Quale sarebbe il punto di verità che emerge? Sono d’accordo con Mussapi nel dire che è un’interpretazione assolutamente laica; il discorso dell’autore ha una pretesa veritativa che va al aldilà del rapporto tra credenti e non credenti. Quale sarebbe dunque il punto di verità che emerge?
Per l’autore è in questi termini: “L’atto si affaccia sull’alterità, la chiama a manifestarsi”. E parlando del gesto di Benedetto, prosegue: “Dal punto più alto della responsabilità non rispondo più della vostra assenza di responsabilità e io stesso mi espongo senza sottrarmi alla responsabilità di attuare un atto che lascia in sospeso l’attribuzione di responsabilità”. Mi sembra una formulazione felice e, anche in seguito, il testo prende un respiro interessante.
La nostra è una società a capitalismo avanzato, di consumismo o di tecnonichilismo come è stato detto, è un insieme in cui si mischia il processo di secolarizzazione e di avanzamento tecnologico. Se dovessi dire velocemente in che cosa consiste il pericolo maggiore di questa società direi che è l’idea che si possa costruire una società in cui non è più necessario essere buoni. Costruire una società con un tale meccanismo e una tale perfezione, con questa ingegneria degli interessi che alcuni identificano nella politica, con questo equilibrio assoluto rappresentato dalla tecnologia, dalla mappatura del genoma umano, dal cognitivismo, è una sorta di delirio, sarebbe, in termini psicanalitici, dell’ordine del delirio.
Ritorniamo alla frase di prima: “Dal punto più alto della responsabilità non rispondo più della vostra assenza di responsabilità”: ovvero io mi chiamo fuori per rimettere in atto il funzionamento. L’idea è che si nasce uomini senza deciderlo, ma non si diventa uomini senza deciderlo. Non si può pensare di costruire minimamente una convivenza umana senza la decisione individuale, costante, di ogni singolo uomo per il bene. Questa questione, radicalmente, riguarda la difesa del soggetto. Dire responsabilità vuol dire soggetto. C’è un passaggio di Ricci che io condivido moltissimo, quando dice a un certo punto che “a difendere fortemente la soggettività e a resistere alla sua omologazione rimangono oggi solo il cattolicesimo e la psicanalisi. Entrambi, e non a caso, abbondantemente bersagliati da critiche e obiezioni”. Sono d’accordo, è proprio così. E’ chiaro che dire soggetto e dire responsabilità vuol dire dramma. E’ impensabile un’idea di umano in azione che non implichi l’idea di dramma cioè dell’uomo in azione. In questo senso, se ho capito bene, è come se, nella sua interpretazione, questa uscita di scena di Benedetto coincidesse con l’apertura della scena. Cioè mi sottraggo, con tutto il peso che ho come papa, che è un peso enorme, per riattivare e rimettere in scena. (Trascrizione non rivista dall’autore).
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